Don Sante Sguotti

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« Don Sante è nostro padre »
(Parrocchiani su don Sante Sguotti)
« Su questo non ci sono dubbi... »
(Qualcuno su parrocchiani)

Don Sante Sguotti è un massone che ha dedicato la propria vita alla demolizione della Chiesa dall'interno.

Infanzia

L'omino Clericale redarguisce Don Sante Sguotti a Studio Aperto, per aver concepito un figlio senza l'intervento divino del signore.

Un vivace frugoletto fin dalla più tenera età, don Sante nasce , dall’unione di Suor Germana e sé stesso. La monaca, per paura di rischiare l’accusa di pedofilia, decise di nascondere la gravidanza alle consorelle, finendo per partorire all’oscuro di tutti sulla pista dell’aeroporto di Fiumicino.

Il piccolo venne quindi affidato all’orfanotrofio dei padri Culacchioni, crescendo secondo la regola imposta dal fondatore e priore dell’istituto, il noto don Culo, riassunta nel celebre motto Venite pueres ad minchiam meam, traducibile come "Diffondete nel mondo la sete di spiritualità e conoscenza". Qui la verve del piccolo, che aveva il vezzo di allietare le giornate dei monaci con simpatiche burle quali defecare sul posto guida della Simca 1100 del priore o lanciare petardi sotto la porta della toilette occupata dai padri, venne tenuta faticosamente a bada, tramite il consueto approccio del bastone e della carota.

Tuttavia, a causa di questi sani principi, fu in questo periodo che l’imberbe Sante iniziò a covare un profondo odio verso l’istituto che lo ospitava, che fatalmente esplose quando, all’età di 7 settimane, ebbe l’ardire di protestare per la pessima qualità del cibo somministrato al refettorio, sostenendo che il polpettone di cavolfiori, ciccioli e bitume servitogli fosse troppo duro. Dolcemente calmato con una sediata sulla schiena, il piccolo reagì e scagliò il suo cibo contro l’umile crocifisso di marmo e diamanti affisso alla parete di vetro, sbriciolandolo e provocando uno squarcio sul muro tale da rendere precaria la stabilità dell’edificio, dopodiché si allontanò tranquillo canticchiando un brano dei San Culamo.

Gioventù

Fuggito dall’orfanotrofio, Don Sante crebbe per strada, sbarcando il lunario nei modi più disparati. Dotato di un ingegno geniale, decise di far fortuna trasferendosi a Padova, dove giunse a bordo di un Ciao Piaggio 1.4 Turbodiesel rubato a un’anziana signora all’uscita da una palestra e che si vide sequestrare pochi giorni più tardi, dopo essere stato sorpreso ai 220 in autostrada dall’autovelox.

Qui si dedicò a molteplici attività, grazie alle quali in breve riuscì ad abbandonare l’indigenza in cui versava, costruendosi una reputazione come borseggiatore delle offerte al Santo e gigolo per signore mature. Fu proprio durante uno dei suoi incontri con una nobildonna trevigiana che ebbe modo di apprendere dell’esistenza di una loggia massonica denominata "Fuoco a Sant’Antonio" che si prefiggeva l’annientamento della Cristianità.

Carriera massonica

Don Sante e suo figlio, futuro papa, mentre disquisiscono sull'arte del "bastonare e ingravidare le fedeli della parrocchia".

Convinto dalla sua cliente, decise di entrare nell’ordine massonico, e come prova di iniziazione venne invitato dal capo della loggia, Piergiorgio Odifreddi, a recarsi a Roma in veste di fantomatico miracolato da Padre Pio, al fine di accelerarne la pratica di beatificazione: era infatti nell’interesse dell’Ordine creare ad arte un vasto movimento di devozione nei confronti di un frate che, fino ad allora, nessuno in Vaticano aveva ritenuto altro che un truffatore, al fine di destabilizzare le gerarchie ecclesiastiche. Sante non solo obbedì, ma all’udienza papale riuscì a essere tanto convincente da indurre Giovanni Paolo II a credere che Padre Pio lo avesse guarito dalla sindrome del treno che scappa, al punto che Wojtyla arrivò a sconfessare i suoi predecessori ed elevarlo a santo.

Deliziato da un simile risultato, Odifreddi prese il nuovo e promettente virgulto della sua organizzazione sotto la sua ala protettrice, andando ad affidargli incarichi di prestigio sempre maggiore, quali l’emissione di un falso ordine di chiusura forzata per un atelier di paramenti sacri e la manomissione dei pannelli con gli orari della messa. In breve ottenne la carica di Venerabile Maestro, nonché la supervisione del reparto propaganda dell’organizzazione, il cui compito principale era il controllo a tappeto della corrispondenza cittadina e la rimozione del materiale filocattolico dalle cassette delle lettere degli abitanti.

La seconda vita ecclesiastica

Gli inizi

Un giorno però il buon Sante ricevette dalla Loggia un incarico di fondamentale importanza. L’Ordine aveva infatti deliberato di ritenere maturi i tempi per portare un attacco alla Chiesa dall’interno, e Odifreddi aveva ritenuto lui il più adatto al compimento della missione che aveva elaborato.

Il piano ideato dal direttivo di "Fuoco a Sant’Antonio" prevedeva tuttavia un cambiamento radicale nella vita di Sguotti, che fino ad allora aveva continuato la bella vita che aveva condotto fin dalla fuga dai padri Culacchioni, durante la quale aveva sviluppato un’attrazione irresistibile per uomini, donne, transessuali, gatti, cinghiali notturni e qualsiasi altro essere semovente, spingendosi talora anche a forme di vita prive di capacità motorie quali Costantino Vitagliano e rami d’ulivo.

Ad ogni modo, conscio dell’importanza del compito che gli veniva affidato e memore dell’odio inestinguibile che nutriva verso la Chiesa, Sguotti accettò il sacrificio, prese i voti e, non senza aver dovuto cedere a compromessi nei riguardi dei superiori del seminario, divenne infine don Sante.

La sua nuova carriera ebbe inizio come cappellano presso la parrocchia “Madonna Incornata” di Bassano del Grappa, dove mostrò subito una grande cordialità nei confronti dei parrocchiani, catturati immediatamente dal suo sorriso smagliante e dalla sua dotta loquela. Ma, malgrado l’eccellente immagine che riusciva a dare di sé, il neo prete non dimenticava i suoi doveri primari, riuscendo a ripristinare la vendita delle indulgenze per finanziare l’Ordine e non perdendo il suo animo buontempone, che non gli permetteva di trattenersi dallo scaccolarsi sul turibolo o dal riempire di vermi l’ostensorio.

Monterosso: l’inizio della fine

La femme fatale che fece perdere la testa al buon Sante

Nella sua seconda esperienza venne designato parroco e spedito in quel di Monterosso, paesino talmente sperduto che, quando ne digitò il nome sul Tom Tom, gli apparve lo schermo blu della morte. Tuttavia, proprio in questa fase l’istinto del seduttore iniziò a far vacillare la lealtà che don Sante aveva sempre avuto verso l’Ordine. Infatti, mentre raccoglieva fondi mediante l’iscrizione al campo scuola, inteso a far passare ai boy scout 3 indimenticabili giorni in quel di Rovigo a soli 6000 euro, ebbe una folgorazione per una sua avvenente parrocchiana. I due avevano già avuto modo di conoscersi quando Sante si era recato a benedire il suo studio architettonico, specializzato nella progettazione di palafitte e piste da pattinaggio sull’acqua.

Dal momento in cui ebbe inizio la loro relazione, la vita del Venerabile Maestro non fu più la stessa. La necessità di nascondere agli occhi dei parrocchiani la tresca con la sua nuova fiamma diventò infatti prioritaria per lui, in particolare dopo che durante una messa funebre benedisse un perizoma della sua amante che aveva erroneamente conservato nell’ostensorio, dandolo poi in pasto alla vedova a mo’ di ostia. Tale episodio lo indusse a concentrarsi maggiormente nei suoi impegni sacerdotali per mettere a tacere le voci che circolavano in paese, facendo sì che don Sante perdesse a poco a poco di vista il suo incarico primario e si facesse prendere la mano dall’abito talare.

Per diverso tempo la vita in parrocchia tuttavia trascorse relativamente liscia, dal momento che della relazione tra il parroco e la signora erano a conoscenza solamente la squadra di calcio, la banda del paese, le classi di catechismo, la clientela della parrucchiera e gli avventori del bar, i quali tuttavia tenevano il massimo riserbo sull’intera vicenda, facendone parola solo con una criptica scritta “Il prete si trapana l’architetto” comparsa su tutti i cartelli d’ingresso al paese.

Tuttavia, alla sede di “Fuoco a Sant’Antonio” al numero 666 di via Ciellini Bastardi lo sconforto per la piega presa dall’operazione si faceva vieppiù palpabile. Alcuni dei membri, tra i quali l’autorevole vicepresidente Nonno Fiorucci, sostennero la necessità di abbandonare l’operazione e tentare di scardinare il potere clericale con maggiore segretezza tramite un golpe, ma Odifreddi non volle rassegnarsi a perdere la sua scommessa, e decise perciò di continuare con il piano che aveva progettato.

Decise quindi di ricordare a don Sante l’importanza della missione affidatagli, incontrandolo in segreto alla fermata dell’autobus del paese, ma ormai il punto di non ritorno era stato raggiunto: il suo vecchio pupillo si era calato a tal punto nei suoi nuovi panni che non lo riconobbe, e cercò di mandarlo via sostenendo di non avere intenzione di acquistare tappeti da lui. Odifreddi tentò allora di ricordargli il fine ultimo della sua missione, ma sentiti i dettagli del piano, don Sante si offese al punto che denunciò il suo ex mentore e la Loggia per vilipendio alla religione, decretando così la fine dell’Ordine.

Lo sputtanamento

L’incontro con Odifreddi venne presto dimenticato, ma mentre don Sante continuava la sua ascesa nelle gerarchie ecclesiastiche diventando in breve vescovo di Vergate sul Membro e patriarca di Cogne e la relazione continuava con la nascita di tre piccoli, anche altre pie donne vollero avere il privilegio di ricevere dal parroco il frutto proibito. E fatalmente, quando si giunse al punto che il 120% della popolazione femminile di Monterosso poteva vantare precedenti amorosi con Sante, il segreto varcò i ristretti confini del paese e giunse sul tavolo del potente cardinale rettore del Santo Collegio per le Vocazioni, che per un bizzarro scherzo del destino altri non era che il terrore della sua gioventù, Ersilio Tonini.

Questi, che non aveva dimenticato lo sgarbo di tanti anni prima, mal vedeva la popolarità acquisita da don Sante, che iniziava a palesarsi in sempre più frequenti deliri di onnipotenza, nei quali si spingeva a promettere indulgenze plenarie per i masturbatori e minacciare di dannazione eterna le donne colpevoli di radersi il pube. Inoltre, non intendeva perdonargli la stravaganza di intrattenersi con una donna anziché ricorrere come gli altri colleghi alla compagnia dei chierichetti.

Date queste premesse, l’inchiesta promossa dal cardinal Tonini provò la colpevolezza del prete dell’accusa di concubinaggio, tradimento dei voti e pirateria audiovisiva, sulla base di testimonianze come quelle di Gianni Odescalco della Noce di Torreindiquattro de la Coronilla y Azevedo, mendicante che sostenne di averlo visto in compagnia femminile intento alla pratica del gioco della bottiglia, che si concluse con la sconfitta della donna che dovette quindi infilarsi il recipiente nell’orifizio anale.

In seguito a questa condanna arrivò quindi la sospensione papale a divinis per il sacerdote, che però non riuscì a farsene una ragione e continuò a celebrare messa, mantenendo le chiavi della chiesa e sfidando apertamente l’autorità pontificia autoincoronandosi ottavo re di Roma, forte soprattutto dell’appoggio dei parrocchiani, tutti compatti a difesa del loro prete dietro lo striscione "Don Sante è nostro padre", ignorando forse che per tre quarti di loro non si trattava solo di uno slogan.

La scomunica e le vicende successive

In seguito alla scomunica definitiva, Sante si sentì fortemente ferito, nell’orgoglio ma soprattutto nel fisico. Infatti, prima il nuovo prete che prese il suo posto a Monterosso, seccato dalla sua insistenza nel non voler abbandonare l’incarico, dopo l’ennesimo diverbio lo sfigurò infilandogli la testa nel turibolo ardente, e poi gli emissari dell’Ordine massonico lo punirono per il fallimento della loro missione costringendolo a mangiare un panino farcito col suo stesso scroto.

Privato così in un colpo della carriera ecclesiastica e della possibilità di vivere apertamente la sua relazione con la compagna di lungo corso, che dopo l’incidente del panino gli stette vicino a lungo prima di cogliere al volo l’occasione di diventare segretaria particolare di don Culo, l’ex prete si ritrovò così nelle stesse condizioni di quando era fuggito dall’orfanotrofio, per di più privato della possibilità di guadagnarsi da vivere sollazzando le signore. Tuttavia, con la forza della disperazione Sante cercò di rialzarsi dalla polvere in cui era finito. Prese così la patente per la guida del camion, intendendo svolgere un lavoro regolare, ma il vecchio demone del crimine tornò a impossessarsi di lui, e ben presto venne licenziato dopo aver fatto sparire alcuni carichi di letame e averli rivenduti di straforo a Beppe Bigazzi.

Nel frattempo, durante un’indagine su certe sparizioni di fondi per la costruzione dell’aeroporto coperto di Casablanca commissionato nel 1963 allo studio della sua ex amante e di cui a giorni si sarebbe assistito all’inaugurazione del parcheggio, la principale indagata fece il nome di Sguotti, che secondo quanto dichiarato dall’architetto avrebbe adoperato i proventi illeciti per finanziare la sua campagna elettorale per diventare vescovo di Vergate. Il povero Sante ha finora smentito ogni addebito, sostenendo di non sapere nulla di quei soldi e accusando anzi don Culo di essersene appropriato per far chiudere un occhio alla polizia di frontiera su un carico di chierichetti filippini che avrebbe dovuto arrivare il 30 febbraio al porto di Brescia via nave.