Banda della Uno bianca

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Per molto tempo l'unico identikit attendibile fu quello del mezzo di trasporto.
Per quelli che non hanno il senso dell'umorismo, su Wikipedia è presente una voce in proposito. Banda della Uno bianca

La banda della Uno bianca fu un'organizzazione criminale operante in Emilia Romagna, composta per lo più da poliziotti. Nel 1987 Piergiorgiomaria Bruciafichi, all'epoca questore di Bologna, incaricò l'assistente capo Roberto Savi di costituire un nucleo di Polizia Criminale. Ci fu un evidente fraintendimento.

« Se vogliamo catturarli dobbiamo mettere un posto di blocco sulla provinciale per Modena. »
(Roberto Savi che consiglia ai colleghi poliziotti cosa fare.)
« Se vogliamo farla franca dobbiamo evitare la provinciale per Modena. »
(Roberto Savi che consiglia ai colleghi banditi cosa fare.)

La banda operò fino all'autunno del 1994 e commise 103 azioni delittuose, provocando la morte di 24 persone ed il ferimento di altre 102 (e per fortuna che erano agenti di pubblica sicurezza, altrimenti poteva andar peggio). Il nome deriva dall'automobile generalmente utilizzata per le azioni criminali, una Fiat Uno di colore bianco. La scelta del veicolo era motivata da tre logiche ragioni:

  1. era facile da rubare;
  2. era difficile da individuare per la sua estrema diffusione;
  3. sarebbe stato imbarazzante chiamarsi la Banda della Ritmo Celestina.

In un'intervista un giornalista insinuava che dietro la banda si celassero in realtà i servizi segreti, Fabio Savi (uno dei componenti) rispose così:

« Dietro la Uno bianca c'è soltanto la targa, i fanali e il paraurti. »
(Fabio Savi che vuole fare lo spiritoso.)
« ...e i Carabinieri che vi corrono dietro! AHAHAH!!! »
(Il giornalista che fa la battuta e si sganascia assieme al Savi.)

Componenti della banda

L'arresto dei tre fratelli Savi. Roberto si reca in questura in modo tranquillo (come faceva tutti i giorni). Fabio viene catturato al confine con l'Austria, nel disperato tentativo di aggregarsi al terrorismo altoatesino. Alberto viene arrestato nel commissariato di Rimini, da un collega che sembra il suo gemello.
  • Roberto Savi (Forlì, 1954): poliziotto presso la Questura di Bologna. Dopo essere stato per molti anni operatore in volante, dal 1992 opera come operatore radio nella centrale operativa[1]. Possiede una collezione di armi, regolarmente registrate su un foglio di carta della pizza, fra cui due Beretta AR 70, una lupara, qualche fucile d'assalto, due dozzine di coltelli, quindici armate verdi di Risiko e un cannoncino da 40mm, in dotazione ai dragamine jugoslavi classe "Pojvic". È la mente del gruppo, gli inquirenti lo definiscono un Al Capone col cervello di Lorenzo de' Medici, ma anche negli anni '90 sparavano cazzate assurde. Il 3 agosto 2006 ha fatto richiesta di grazia, ottenendo però solo una Graziella.
  • Fabio Savi (Forlì, 1960): fratello di Roberto e cofondatore della banda. Un lieve difetto alla vista gli preclude la carriera di poliziotto, senza occhiali non distingue sua madre da un autobus. È l'unico componente presente a tutte le azioni criminali della banda, ha un carattere aggressivo e durante le rapine, per incutere maggior timore, indossa sempre un fratino della Guardia di Finanza.
  • Alberto Savi (Cesena, 1965): fratello minore di Roberto e Fabio. Presta servizio presso il Commissariato di Rimini. Debole di carattere, subisce la personalità dei fratelli maggiori. Viene utilizzato dalla banda per togliere le multe, passare l'aspirapolvere nel covo e preparare un'ottima coratella.
  • Pietro Gugliotta (Catania, 1960): non partecipa alle azioni omicide del gruppo. Anche lui è operatore radio presso la questura, ha l'idea di acquistare i telefoni cellulari (all'epoca costosissimi) utilizzati per guidare i complici durante la fuga. Viene scarcerato nel 2008 grazie all'indulto, finirà di pagare le rate dei telefonini nel 2035.
  • Marino Occhipinti (Santa Sofia, 1965): membro minore della banda e vice-sovrintendente della sezione narcotici della Squadra mobile. Prende parte all'assalto ad un furgone della COOP, durante il quale muore una guardia giurata. Per questo motivo, viene soprannominato dai complici RoboCoop e si becca l'ergastolo. Nel 2012 gli viene concessa la semilibertà e un lavoro: evitare che le vecchie che fanno la spesa si portino via i carrelli di un supermercato.
  • Luca Vallicelli: è agente scelto (non si sa da chi) presso la Polizia Stradale di Cesena. Partecipa solamente alle prime rapine, quelle ai bigliettai della A14, che si concludono senza omicidi (anche perché definire "vivi" i casellanti sarebbe una forzatura). Patteggia la pena di tre anni e otto mesi, attualmente è un uomo libero, ancorché destituito dalla Polizia di Stato[2].

Principali azioni criminali

Gli inizi

L'auto di Alberto Savi, utilizzata nella prima rapina.

La banda iniziò le sue scorrerie notturne nel 1987, inizialmente solo per pagarsi interminabili partite ai videogiochi. I membri erano infatti grandi appassionati e assidui frequentatori della sala giochi "Gioventù bruciata" di Castenaso (BO). I casellanti dell'autostrada A14 erano i loro bersagli preferiti. La prima rapina venne effettuata il 19 giugno di quell'anno al casello di Pesaro. La tecnica era ancora sperimentale e in via di perfezionamento:

  • l'auto usata per il colpo era la Fiat Regata grigia di Alberto Savi, la cui targa era stata opportunamente modificata disegnandoci sopra un paio di baffi a manubrio;
  • la rapina non provocò alcuno spargimento di sangue;
  • il più giovane ed impressionabile dei fratelli Savi, Alberto, si mise a piangere e si fece la pipì addosso, costringendo la banda a una sosta forzata presso il primo autogrill.

Il colpo fruttò appena 1.300.000 lire, l'equivalente di un loro stipendio. Ciò spinse la banda ad intensificare il lavoro notturno. Nei due mesi successivi vennero compiute dodici rapine ad altrettanti caselli. Nell'ambiente del "Gioventù bruciata" i fratelli Savi divennero dei miti in quanto, a forza di buttarci dentro monetine, finirono tutti cinque volte i sedici giochi presenti nella sala. Il suo proprietario iniziò a farsi vedere in giro a bordo di una Ferrari e placcò in oro le maniglie e la rubinetteria dei cessi. In quel periodo beveva solo Perrier e Dom Perignon e si abbigliava come un Lele Mora ante litteram. Quando la banda fu sgominata cadde sul lastrico e ci rimise anche i denti. Oggi fa il lustrascarpe a Calcutta.

L'evoluzione

Nell'ottobre dello stesso anno la banda decise di diversificare l'attività lanciandosi in una joint-venture con un autorivenditore riminese, organizzando un'estorsione ai danni di quest'ultimo. Il piano era semplice e preciso: spedire una lettera minatoria e attendere gli sviluppi. Ecco il testo della lettera:

Caro autorivenditore,
facciamo parte della sezione continentale dell'Anonima sarda, infatti siamo tutti emigrati perché giù non si trova mai lavoro. Se non ci credi puoi anche farci qualche domanda: abbiamo studiato e siamo preparati in geografia, anatomia ed educazione fisica, ma ora basta parlare di noi. Se non vuoi che ti sequestriamo tutte le macchine e gli tagliamo tutti gli specchietti retrovisori devi darci tutti i soldi che ti chiederemo. E sappi che siamo in possesso di foto in cui
T'hanno visto bere a una fontana
che non ero io
t'hanno visto alzare la sottana
la sottana fino al pelo. Che nero!

Se fai il furbo le pubblicheremo su Cioè, col tuo nome, indirizzo e recapito telefonico.

Capito ci hai? Perché se non hai capito te lo rispieghiamo, capito hai?

Aspetta altre istruzioni e rispetta i limiti di velocità, sennò ti becchi pure una multa, il ritiro della patente e il sequestro del mezzo.


L'autorivenditore finse di abboccare e si presentò all'appuntamento con un agente nascosto nel portabagagli, seguito a breve distanza da altre autovetture del commissariato di Rimini. Poiché tutti si aspettavano di incontrare esponenti della malavita sarda, l'arrivo della banda della Uno bianca venne interpretato come l'intromissione di un gruppo di perdigiorno incapaci di badare ai fatti loro.
« Circolare, circolare, non c'è niente da vedere! »
(Il sovrintendente Antonio Mosca un istante prima di essere crivellato di pallottole.)
La banda aprì il fuoco non tanto perché si era vista scoperta, quanto perché non era stata riconosciuta. Il conflitto a fuoco che ne seguì lasciò sul terreno una civetta, due beccacce e un'intera famiglia di porcospini. Il sovrintendente Mosca, gravemente ferito, morì dopo due anni di atroci sofferenze. Il suo omicidio fu il primo di una lunga serie. La banda realizzò che non era opportuno proseguire con le estorsioni ma, sempre in nome della diversificazione, aggiornò il protocollo operativo sulle rapine a mano armata aggiungendo le opzioni:
  • "Vuotare i caricatori";
  • "Tutti kaputt".

La routine e le debite eccezioni

In un disperato tentativo di sviare le indagini, i Savi arrestarono la Banda Bassotti.

Il triennio 1988 - 1990 vide la banda compiere un concreto salto di qualità: in questo periodo furono messe a segno trecentosessantundici[3] rapine, praticamente una ogni due giorni, ferragosto compreso. In undici restarono uccisi, per lo più guardie giurate e carabinieri, ma non mancarono i potenziali testimoni e semplici passanti. I membri della banda non erano dichiaratamente razzisti, ma non sopportavano i negri, i froci e gli zingari. Non vedevano di buon occhio nemmeno i tossici, ma non ebbero mai a che farci perché convinti che potessero trasmettere l'AIDS con lo sguardo.
Il 23 dicembre 1990 la banda, trovandosi con alcune scatole di munizioni che scadevano il 31/12, decise di liberarsene organizzando una spedizione afinalistica in un campo nomadi. A causa delle imminenti festività natalizie, si presentarono all'appuntamento tutti piuttosto alticci. Spararono circa dodicimila proiettili, riuscendo ad uccidere solo due rom, per giunta con colpi di rimbalzo.

In tutto questo tempo la banda aveva affinato le proprie tecniche e alzato il tiro: non più improvvisate scorribande ai caselli autostradali, in cui potevano anche regalare buone dosi di adrenalina agli annoiatissimi casellanti, se le necessità contingenti non suggerivano diversamente: adesso venivano messi in atto degli ingegnosi ed elaborati piani per rapine in grande stile anche a supermercati, banche e uffici postali. Specialmente in questo periodo "lavorare" era molto più semplice, grazie ad un geniale modus operandi ideato da Roberto Savi.

  1. Entravano nella struttura prescelta e con feroci minacce si facevano consegnare i soldi.
  2. Gridando "Altolà, polizia!", si qualificavano come agenti e si arrestavano a vicenda.
  3. Portavano via il bottino come prova, rilasciando "regolare" ricevuta al direttore, che si complimentava con loro per il tempestivo intervento.

Grazie alle lungaggini dell'iter burocratico, necessario a disporre il dissequestro della refurtiva, agirono indisturbati per diversi anni. Il Credito Romagnolo ne sta tuttora aspettando la restituzione.

La strage del Pilastro

Nel 1991 la banda raggiunse l'apice della carriera, mettendo a segno una rapina dopo l'altra. Di riflesso aumentò anche il numero di morti ammazzati e si diffuse una sorta di psicosi collettiva: nessuno era finora riuscito a dare un volto ai criminali. A malapena si sapeva che si muovevano a bordo di una Uno bianca, che in quel momento era l'auto più diffusa su tutto il pianeta[4], quindi si scatenavano scene di panico un po' ovunque, tutti sospettavano di tutti e la Fiat registrò un brusco calo delle vendite di Uno bianche. Contemporaneamente i carrozzieri conobbero un periodo d'oro riverniciando un numero impressionante di veicoli potenzialmente sospettabili. In tale contesto la banda agiva con la sicurezza e la spavalderia tipiche di chi assume un ruolo attivo nel gioco del dottore.
Il 4 gennaio di quell'anno, alle ore 22:03, i criminali percorrevano una strada del quartiere Pilastro di Bologna. Erano diretti a San Lazzaro di Savena per rubare un'automobile da utilizzare nel colpo successivo. Furono affiancati e superati da una pattuglia dei Carabinieri. Sarebbe finita lì, ma il gesto fu interpretato come un tentativo di leggere i numeri di targa, ma soprattutto, fatto ben più grave, come un gesto di scherno rivolto dalla Benemerita a tutto il corpo di Polizia:
« Ma li avete visti? Ci hanno anche riso in faccia mentre ci sorpassavano. E inoltre quello seduto dietro ci ha anche fatto un televisore[5]! Non possiamo far finta di niente! Siamo pur sempre poliziotti, che cazzo! »
(Roberto Savi con sottofondo di caricatore installato sull'arma.)
Detto fatto: i banditi affiancarono la pattuglia e indirizzarono due pallottole al guidatore che, benché ferito, tentò la fuga ma andò a schiantarsi su alcuni cassonetti in sosta vietata. Nei sei secondi successivi i tre carabinieri e i cassonetti furono investiti da un fuoco incrociato di una violenza tale che anche i naziskin si costituirono parte civile al processo. La strage rimase impunita per quattro anni. Gli inquirenti trovarono subito la pista giusta, ma la scartarono perché "troppo convincente" e indagarono in tutte le direzioni, quelle sbagliate. La verità venne a galla solo durante il processo, confessata dalla stessa banda che ormai si era rotta le palle di aspettare.

La decadenza

Nel 1992 la banda trascorse un anno sabbatico in fatto di omicidi, ma mise a segno varie rapine, soprattutto in banca. Iniziava a subentrare quella fase di stanca tipica della monotona routine: di giorno lavoro in questura, di notte le rapine. Per dare una sferzata agli animi impigriti fu deciso l'obbiettivo da raggiungere nel 1993: ammazzare almeno due persone. Alla fine di quell'anno, al termine della riunione di verifica, la banda redasse un verbale in cui si dichiarava l'obbiettivo raggiunto. Il progetto di miglioramento proposto per l'anno successivo prevedeva l'incremento esponenziale delle rapine e dei cadaveri. L'inizio del 1994 prometteva bene: fino a maggio erano state compiute ben nove rapine e un direttore di banca era stato imbottito di piombo.
Ma fu allora che la banda venne sgominata. E meno male, ché scrivere a lungo di queste cose fa venire la tristezza.

Le condanne

Roberto Savi, un freddo calcolatore.

I componenti della banda furono tutti arrestati col minimo sforzo, erano già in commissariato. L'unico che diede qualche grattacapo fu Fabio Savi, catturato travestito da alce nei pressi di Vipiteno (BZ). I processi a loro carico si sono conclusi il 6 marzo 1996 con 3 ergastoli per i fratelli, uno per Occhipinti, una cinquantina di anni di carcere (spartiti da buoni amici tra gli altri) e qualche scapaccione. La cosa difficile era decidere dove fargli scontare la pena, l'idea di mettere dei poliziotti in mezzo ai comuni criminali non era praticabile, sarebbero durati meno di un Calippo tra le cosce di Cicciolina. Protetti dall'anonimato, furono portati tutti in un segretissimo carcere di massima sicurezza, talmente segreto che non si sa per certo se esista davvero. Ogni tanto, per non dare nell'occhio, vengono spedite richieste di clemenza a loro nome, domande di trasferimento ai servizi sociali e richieste di permessi per far visita alle nonne malate, o per andare ai calcinculo. Ovviamente, per mantenere la cosa credibile vengono tutte respinte, a parte quella di Pietro Gugliotta (in libertà grazie all'indulto), quella di Marino Occhipinti (posto in semilibertà nel 2012) e quella di Fabio Savi (trasferito al carcere di Spoleto perché appassionato di teatro lirico sperimentale, o almeno, così dice lui). Alberto Savi ha chiesto di poter uscire nel 2010, ma ha ricevuto un due di picche (i parenti delle vittime iniziavano ad innervosirsi). Roberto Savi, il capo della banda, ha chiesto un televisore nuovo, nessuno l'aveva avvertito che ora c'è il digitale terrestre e da qualche anno guardava la nebbiolina. Nell'ambito del processo alla banda, venne stabilito inoltre che lo Stato versasse ai parenti delle 24 vittime 19 miliardi di lire, ma poco prima, col DDL approvato d'urgenza (denominato "decreto mo[6] te frego"), tassarono i rimborsi alle vittime dello Stato al 78%.

Note

  1. ^ È tutto vero, non è colpa mia!
  2. ^ E vorrei vedere altrimenti!
  3. ^ No vabbe', un po' meno...
  4. ^ Eccetto una sperduta regione della Germania dove andava ancora forte la Glas Goggomobil.
  5. ^ Così era detta, in quegli anni, l'usanza molto in voga tra i ventenni di allora, di calarsi le braghe e mostrare il deretano ai passanti, osservandone la reazione sbigottita.
  6. ^ Adesso.

Voci correlate

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Questa è una voce di squallidità, una di quelle un po' meno pallose della media.
È stata miracolata come tale il giorno 26 gennaio 2014 col 50% di voti (su 12).
Naturalmente sono ben accetti insulti e vandalismi che peggiorino ulteriormente il non-lavoro svolto.

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