Kunta Kinte

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Kunta Kinte allo stato brado
« Badrone, berché io lavare oggi, se domani di nuovo sborco? »
(Kunta Kinte riflette sull'inutilità dell'igiene intima)

Kunta Kinte è il protagonista di numerose storie educative che lo vedono sottoposto a trattamenti inumani affinché i bianchi si vergognino di cose successe quando non erano ancora nati. I neri invece lo odiano proprio.

Storia del personaggio

Kunta Kinte era un tale che affermava di essere di essere il principe (rectius: figlio del capotribù) di una tribù di negri uomini di colore africani, catturato e venduto come schiavo lavoratore forzosamente assunto per essere impiegato nella raccolta del cotone in Virginia (USA).

Impara sin da tenera età l'uso della lancia e del coltello, ad accendere il fuoco e a sparare con il fucile mitragliatore. Il padre, capo villaggio, è fiero del proprio figlio e lo porta spesso nei villaggi vicini a far razzia di donne e capi di bestiame.

Un bel giorno si imbatte in una torma di bianchi malvagi che lo catturano per scoprire se è proprio vero quello che si dice sugli uomini di colore, restando però delusi. Per questo incaprettano Kunta Kinte per portarlo negli USA e venderlo come concime, non prima di un drammatico viaggio in condizioni orribili, stipato insieme ad altri 139 disgraziati su un barcone malconcio; alla vista di Laura Boldrini che li accoglie a riva, i poveretti implorano il comandante di fargli raccogliere cotone a frustate in qualche buco di culo nel Maryland.

Nel frattempo Kunta Kinte si distingue per il continuo lamentarsi riguardo il vitto e l'alloggiamento, a suo dire "non rispettoso delle vigenti norme igieniche", almeno finché i suoi compagni non chiedono al comandante di farlo tacere, possibilmente usando un qualche oggetto incandescente.

Una volta giunto in America, i suoi protettori gli consigliano di cambiare il suo ridicolo nome in un più dignitoso Toby (in italiano tradotto con Fido), nome magari non originalissimo ma che un cane, ad esempio, ben potrebbe portare senza vergognarsene minimamente.

Il protagonista invece rifiuta il suo nuovo nome e pretende, esibendosi in uno dei suoi estenuanti capricci, di continuare a chiamarsi Kunta Kinte, senza curarsi dell'evidente cacofonia di siffatto appellativo. I suoi datori di lavoro, esasperati da queste continue prese di posizione che peraltro rallentano la produzione di cotone, decidono allora di legarlo ad un palo e scudisciarlo sino a che non avrà imparato a dire per bene il suo nuovo nome.

Alla terza frustata Kunta Kinte tenta di patteggiare con il nome di Edoardo Vittorio Amedeo Carlo, Re d'Albania ed Imperatore d'Etiopia; all'ottava opta per il più modesto Corrado III, Marchese del Monferrato; alla dodicesima infine cede e mormora tra le lacrime Toby, a riprova dell'efficacia pedagogica del corretto uso della frusta[citazione necessaria]. Che fighetta.

Badrone, ho sonno! Facciamo Ottone IV Imperatore del Sacro Romano Impero e non se ne parla più, ok?

Dopo alcuni anni trascorsi in catene per aiutare l'azienda nella raccolta del cotone, i suoi datori di lavoro, progressisti convinti, si convincono che ormai a Kunta Kinte Toby sia passata la voglia di mettersi nei pasticci. Decidono allora di lasciarlo libero, proprio come se fosse davvero un essere umano. Invece di dimostrarsi grato per questo bel gesto di fiducia, il protagonista ne approfitta per fuggire, con l'intenzione di costruirsi da solo una nave di tronchi e tornare in Africa. Ovviamente il fuggitivo viene ripreso poche ore dopo il bislacco tentativo di fuggire, coprendosi di ridicolo[citazione necessaria]. A questo punto la dirigenza aziendale decide di punirlo facendogli uno scherzo, ossia legandolo e facendo finta di volergli tagliare un pezzo di piede, in modo da fargli passare la voglia di riprovarci. Qualcosa tuttavia non va per il verso giusto, Kunta Kinte Toby si divincola e lo scherzo si tramuta in tragedia: l'ascia gli taglia un pezzo di piede per davvero.

Amorevolmente soccorso e medicato, i datori di lavoro gli restituiscono la sua vecchia occupazione nonostante sia un invalido, anche perché per raccogliere il cotone bastano le mani e poter camminare, mica serve fare le corse! Il libro allora si dilunga in una lunga tiritera antirazzista e piena di luoghi comuni sulla dignità umana, la cattiveria dei bianchi e via discorrendo. Resta il fatto che al giorno d'oggi nessuna azienda riprenderebbe a lavorare uno divenuto invalido con contratto a tempo determinato in scadenza, a meno di poter contare su congrui incentivi statali di riduzione delle imposte contributive e previdenziali[citazione necessaria]. Invece il protagonista, non pago di aver conservato il suo lavoro nonostante il tentativo di fuga, dimostra di essere a tal punto irriconoscente da lamentarsene pure!

Grazie alla guerra di secessione americana e conseguente abolizione della schiavitù, Kunta Kinte diventa un uomo libero. Si dedicherà con profitto in tutte quelle attività regolarmente praticate dagli uomini di colore: giocare a basket, fare l'accattone, spacciare eroina, stuprare le donne bianche e riciclare il denaro sporco.

Kunta Kinte: personaggio inventato o completamente campato in aria?

L'autore del romanzo volle far credere a tutti che Kunta Kinte fosse davvero esistito, ma ciò è impossibile perché non c'è alcuna prova storica dell'esistenza dello schiavismo. Risultò infatti che Kunta Kinte era il nickname usato dall'autore per beccare topa su Facebook, e che gran parte della storia era stata copiata dalle memorie di Mario Borghezio[1]; l'autore fu infatti giudicato colpevole di plagio e condannato a raccogliere 650 mila balle di cotone.

Note

  1. ^ Pestare negri e altre parabole, Edizioni Raus!, 1976.

Voci correlate