Appunti per un film sull'India
Appunti per un film sull'India | |
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[[File:|frameless|center|260x300px]]Hai visto mai trovassi i soldi! | |
Paese di produzione | Italia |
Genere | Documentario |
Regia | Pier Paolo Pasolini |
Interpreti e personaggi | |
Paolo Pier Linipaso |
Appunti per un film sull'India è un documentario italiano del 1968, diretto da Pier Paolo Pasolini. Il film venne realizzato per conto della rubrica Tv7 del telegiornale di Rai Uno, trasmessa astutamente subito dopo pranzo per conciliare la pennichella. Fu girato in India, altrimenti si sarebbe dovuto chiamare Appunti per un film sull'India girato da qualche altra parte, al ché sarebbero venuti meno i presupposti per gonfiare le note spese a dismisura. Furono scelte le città di Bombay e Nuova Delhi, negli anni '60 erano le uniche ragionevolmente al sicuro dal vaiolo (e dai cobra).
Il documentario ha sicuramente alcuni pregi:
- dura appena 34 minuti;
- dura poco più di mezz'ora;
- dura meno di 40 minuti;
- non è lungo;
- è corto;
- finisce presto.
Il film è basato su una storia mitologica indiana che si perde nella notte dei tempi, senza una torcia.
Il mito è chiaramente una storia priva di riscontri oggettivi, inoltre evidenzia alcune illogicità:
- chiunque si trovi davanti una tigre si trasforma in una versione dopata di Usain Bolt, talmente veloce che quando parte la pelliccia dell'animale viene risucchiata dallo spostamento d'aria;
- una tigre affamata non aspetta che tu decida di offrirti a lei come spuntino, nel tempo che inizi a porti la domanda ti sta già digerendo;
- anche ad uno iscritto da dieci anni a 100% Animalisti, l'idea di farsi sbranare resta a debita distanza dal cervello, almeno quanto quella per Francesco Totti di giocare nella Juventus.
Il mito ha comunque una valenza religiosa: il rispetto per il valore della vita, sia essa degli umani che degli animali, che può giungere fino al sacrificio di se stessi. Ovviamente, l'eventuale disponibilità di un fucile a pompa avrebbe probabilmente minato il carattere risoluto del maharaja. Pasolini gira quindi l'India intervistando persone di tutti i ceti sociali, ponendo loro la domanda: "È giusto che chi ha molto debba dare a chi è meno fortunato?" Che equivale a chiedere in giro: "Se un rumeno stupra tua figlia, è giusto almeno dirgli brutto cattivo?[1]
La pellicola fu presentata alla Mostra del Cinema di Venezia l'anno seguente, insieme al film Teorema, ma la Mostra gli ha dato la mano moscia.
Trama illustrata
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La spedizione inizia nel peggiore dei modi, è in corso uno sciopero dei precari del settore ferroviario, che hanno fatto sapere (tramite i sindacati) che gradirebbero una diminuizione delle frustate. Trovare un autobus per Bombay è un incubo. Per fortuna l'APT locale è piuttosto efficiente, uno zio della direttrice fornisce la vitale informazione, per 10 dollari, cifra che gli consentirà di vivere per sei mesi senza lavorare nelle fogne.
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Il mezzo si rivela una trappola infernale, emettere venefici e fragorosi peti nella mischia non scoraggia nessuno dal dargli assalto. L'intervista di Pasolini si trasforma in un sondaggio sui mezzi pubblici da rivendere alle televisioni indiane, qualche soldo extra fa sempre comodo. La gente che scende dal bus è inferocita, per un attimo il regista si sente a casa, gli animi sono gli stessi della linea 328 Corviale-Bufalotta.
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Pasolini inizia con i Dalit, i cosiddetti "intoccabili", che nel sistema sociale e religioso induista occupano il gradino più basso, subito sotto i gerani. A questa categoria appartengono tutti coloro che svolgono lavori considerati "sporchi", tra i quali: ostetriche, dottori, macellai e svuotatori di latrine. La cosa ha peraltro senso, sia le prime che gli ultimi devono comunque svuotare qualcosa. Purtroppo i Dalit non sono molto disponibili al dialogo, causa vorticoso ma comprensibile giramento di palle.
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Con gli Shudra, le persone che usano la forza fisica nel proprio lavoro, il regista non ottiene risultati migliori. Il livello scolastico che si possono permettere li mette in grado di conoscere i numeri, i colori e buona parte dell'alfabeto, restano comunque una via di mezzo tra un Renzo Bossi e un dingo, in ordine crescente di intelligenza. I Vaiśya (commercianti e artigiani) sembrano più ricettivi, anche se leggermente diffidenti con gli stranieri.
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Per il parere dei Kshatriya (nobili e guerrieri) Pasolini ottiene di poter parlare addirittura con un maharaja e sua moglie. Il dialogo offre uno scenario tanto inatteso che scontato: lo spirito di protezione dei deboli, che permeava anticamente tale casta, sembra aver fatto posto ad una visione prettamente occidentale, probabilmente assorbita in epoca coloniale. In altre parole, appare evidente che dei poveri a loro non gliene frega una minchia.
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Pasolini lascia per ultimi i Brahmani, sacerdoti e intellettuali, certo che almeno da loro giungeranno parole di speranza. Il problema è che la maggior parte di loro hanno raggiunto lo stadio meditativo Ashamagītā, che implica uno stato di serenità imperturbabile, in parte ottenuta ripetendo continuamente la sacra parola Stycāzzī. Per il resto del tempo sono impegnati a raggiungere il saṃsāra, ossia sono strafatti come uno sciamano messicano imbottito di peyote.
Pasolini conclude il film con una frase emblematica inserita durante il montaggio:
Dalle testimonianze dei suoi accompagnatori, sembra che durante le riprese sia stata:
Curiosità
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- Per la scena del manutentore di fogne non è stata usata la computer grafica.
- Nel corso della première, per aumentarne l'impatto emotivo, durante la stessa scena il regista ha scoreggiato tutto il tempo.
Note
- ^ Già, il Canone Rai veniva sperperato anche negli anni passati.
Voci correlate
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