A Silvia: differenze tra le versioni

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Il [[poeta]] sotto l'influsso dell'estro poetico e dello sciroppo di ipecacuana ricorda di quel giorno disgraziato in cui la sventurata, pensando evidentemente ad altro, prese in pieno il secchio di vernice poggiato sulle scale dal povero [[Giacomo Leopardi|Leopardi]], al quale i perfidi [[genitore|genitori]] non risparmiavano nulla, nemmeno i più pesanti lavori domestici.
Il [[poeta]] sotto l'influsso dell'estro poetico e dello sciroppo di ipecacuana ricorda di quel giorno disgraziato in cui la sventurata, pensando evidentemente ad altro, prese in pieno il secchio di vernice poggiato sulle scale dal povero [[Giacomo Leopardi|Leopardi]], al quale i perfidi [[genitore|genitori]] non risparmiavano nulla, nemmeno i più pesanti lavori domestici.


Le due figure principali sono due: Silvia e il poeta, accomunati dalla dolce stagione della [[giovinezza]], delle illusioni, della fiducia nel futuro e dallo stare assieme sulla stessa maledetta rampa di scale.
Le figure principali sono due: Silvia e il poeta, accomunati dalla dolce stagione della [[giovinezza]], delle illusioni, della fiducia nel futuro e dallo stare assieme sulla stessa maledetta rampa di scale.


La caduta dolorosa di Silvia richiama al poeta la caducità del posto di [[lavoro]], facendo crescere in lui rassegnazione e rabbia per un incidente che con un po' di attenzione si poteva benissimo evitare.
La caduta dolorosa di Silvia richiama al poeta la caducità del posto di [[lavoro]], facendo crescere in lui rassegnazione e rabbia per un incidente che con un po' di attenzione si poteva benissimo evitare.

Versione delle 11:12, 30 apr 2010

A Silvia è una poesia di Leopardi-Mogol-Battisti, composta tra il 19 e il 20 aprile del 1828, subito dopo mangiato, che anticipa espressioni, idee e complessi mentali imbarazzanti che saranno propri del Romanticismo, del Risorgimento e del Rinascimento.

Il poeta si ispira non a Teresa Fattorini come comunemente si crede, bensì alla più dissoluta Assuntina Bambazzi, la figlia del portiere del suo palazzo, da tutti nota come "avanti, c'è posto" per i suoi trascorsi amorosi piuttosto libertini.

Il pc di Giacomo Leopardi, dove è stata rinvenuta la prima stesura della poesia.

Genesi della poesia

Il poeta sotto l'influsso dell'estro poetico e dello sciroppo di ipecacuana ricorda di quel giorno disgraziato in cui la sventurata, pensando evidentemente ad altro, prese in pieno il secchio di vernice poggiato sulle scale dal povero Leopardi, al quale i perfidi genitori non risparmiavano nulla, nemmeno i più pesanti lavori domestici.

Le figure principali sono due: Silvia e il poeta, accomunati dalla dolce stagione della giovinezza, delle illusioni, della fiducia nel futuro e dallo stare assieme sulla stessa maledetta rampa di scale.

La caduta dolorosa di Silvia richiama al poeta la caducità del posto di lavoro, facendo crescere in lui rassegnazione e rabbia per un incidente che con un po' di attenzione si poteva benissimo evitare.

Il professor Giancarlo Rigurgiti, diplomato ad honorem al liceo classico, prova a spiegare con parole sue ciò che nemmeno Leopardi aveva capito bene:

« Assuntina Bambazzi, trasfigurata in Silvia, è divenuta il simbolo eterno di questa gioventù distratta e con la testa per aria, che non si pone neanche il problema di dove stia mettendo i piedi: una generazione di stronzi. »

Anche il professor Lamberto Prugno scrive (perché sa scrivere) e scrive:

« Il Leopardi ha congiunto alla purezza e felicità di Assuntina lo scazzo per la caduta e per aver perso il posto di lavoro creando un accostamento leggero come la maionese sulle cozze. »

Il testo

 Silvia rimembri ancora
quel tempo di tua vita mortale,
quando scendendo le scale
inciampasti nel secchio di vernice
mentre stavo pittando,
e tu, lieta e pensosa,
dove cazzo stavi guardando?

Sonavan le quiete
scale, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo pianto,
All’or che ti lamentavi
Perché t’eri sciancata un fianco.

Era il maggio odoroso: e tu finisti
dritta in una casa di riposo.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
per imparar un mestiere, un’arte
d’in sui veroni del paterno ostello
mi facevo il mazzo con secchio e pennello.

Che caduta soave,
che lamenti, che dolori, o Silvia mia!
Quando sovviemmi di cotanta sfiga,
un sospetto mi rode
acerbo e sconsolato,
e fammi pensar ch’ avevi la testa altrove.

O creatura, o creatura,
perché non guardasti dove mettesti i piedi?
Perché non ricomprasti la vernice che spargesti?

Ahi come,
come passata sei,
io persi il lavoro.

Questo è il mondo? Questi
i problemi, le tasse, l’opre, i rincari
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dei lavorator precari?

All’apparir del secchio
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda porta e poi il tuo dito medio
mostravi di lontano.

Analisi metrica

Si tratta di una poesia, composta da sei strofe di undici settenari, quattro ottonari e sei settenani. Vi sono anche cinque ottomani probabilmente entrati senza permesso e 27 versi privi di rima. L’ultimo verso di ogni strofa rima col verso precedente e col quarto verso di ogni strofa, anche nelle strofe che hanno solo tre versi (Legge della rima invisibile). Gli enjambement (i Giambonetti) sono presenti principalmente nell’ultima strofa e in tutti i distributori di merendine.

Vi sono diverse assonanze: rimembri – ridenti / sedevi – piangevi / sorridevi – smerigliavi / avvenir – ridenti / avvenir – lavarsi i denti / avvenir – passare la lucidatrice / domani – ridenti / domani - marziani / domani – Bersani / solevi – rimembri / solevi – ridenti / solevi – punta per pantografo- e sono presenti anche delle consonanze: mortale – minerale (incrociata) / mortale – pedale / tela - mela / amore – fetore.

Ricorrono frequentemente i suoni "vi"- "ci"-"si" e "pippiripì" (nei versi 1-2-4-8-11-12-13-43-63-1080-2066 e 21).

Dovunque si vedono le anafore, le metonimie e le allitterazioni; qualcuno ci ha visto pure la Madonna.

Seghe mentali correlate

  1. Giacomo Leopardi
  2. L'infinito
  3. Depressione