Utente:Milo Laerte Bagat/Non sparate sul regista

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NON SPARATE SUL REGISTA

Capitolo 1

Mi stavo dando lo smalto fucsia alle unghie dei piedi, un’impresa resa ancor più ardua dal fatto che non mi ero tolto calzini e scarpe, quando Pancrazio, il mio assistente, entrò di corsa in ufficio.
“Guarda qua, capo,” disse porgendomi un quotidiano, paonazzo in volto come un alto prelato beccato in compagnia di tre squillo tailandesi.
Osservai il giornale di malavoglia: “Non ci capisco niente. Cos’è, il solito sudoku?”
“Veramente sono comuni lettere dell’alfabeto. C’è scritto: IL REGISTA QUENTIN TOLENTINO GIRA IL SUO NUOVO FILM IN CITTÀ. Ci pensi? Potremmo incontrare i divi di Hollywood!”
A conferma della sua assoluta padronanza della lingua inglese, pronunciò la parola Hollywood sputandomi addosso.
“E con ciò? Credi che questo migliorerà la nostra situazione?”
La mia attività di investigatore privato non andava bene. L’unica cliente di quel mese era stata una vecchina che aveva smarrito il gatto. Ritrovarlo era stato un gioco da ragazzi, rapirlo un po’ meno.
Pancrazio era un inguaribile ottimista: “Ma… capo! I divi di Hollywood hanno sempre bisogno di guardie del corpo! È la nostra occasione per entrare nel jet set!” e pronunciò la parola jet set scaracchiando sulla scrivania.
D’improvviso l’idea non mi pareva così malvagia: “Ti ho mai detto che sei in gamba, Pancrazio?”
“No, capo.”
“E un motivo ci dovrà pur essere, non credi? Andiamo a far visita a questo regista. Dove alloggia?”
“Hotel Ucciardone, Via Bernardo Provenzano 41 bis. Ma… ecco, non credi che prima di partire dovresti infilarti almeno le mutande?”
“Come sei pedante, ragazzo mio!” Sbuffai irritato, mentre m’infilavo cappello e soprabito: “Com’è che non ti ho ancora licenziato?”
“A dire il vero non mi hai neanche assunto. A tal proposito, ho parlato con i sindacati e mi hanno detto che questo si configura come sfruttamento e…”
“Ne parliamo dopo, adesso dobbiamo lavorare. Ah, usiamo la tua macchina. E guido io.”

Capitolo 2

Com’era lecito supporre, l’entrata dell’Hotel Ucciardone era sorvegliata da un robusto portiere. Indossava una blusa dai bottoni dorati e dei pantaloncini corti Adidas.
Ci squadrò con aria torva ma, conscio della gravità del proprio ruolo istituzionale, non smise di scaccolarsi: “Dove pensate di andare, voi due?”
Avevo già ideato una risposta: “Sono l’idraulico e questo è il mio garzone. C’è una perdita dalle tubature del settimo piano.”
“Curioso,” disse il portiere, “visto che questo hotel ha solo sei piani.”
“Allora sono il tappezziere.”
“È già passato ieri.”
“E se le dicessi che sono il responsabile della sicurezza e sono venuto a vedere se gli estintori sono a norma?”
Il portiere rimase interdetto per un attimo, poi scoppiò a ridere. Pancrazio ed io ci unimmo subito a lui: in effetti l’avevo sparata grossa. “Estintori a norma in Italia,” disse il portiere mentre si asciugava le lacrime, “questa sì che è bella. Voi due mi siete simpatici. Passate pure.”
Gli sfilammo accanto e ne approfittai per infilargli una banconota nel taschino: “Grazie, buon uomo. Ecco un segno della mia gratitudine.”
Eravamo già oltre la porta a vetri quando lo sentimmo esclamare: “Ehi, ma questo è un foglio di carta con sopra scritto cinque dollari. E dollari non si scrive così!”
Una volta dentro, fui subito colpito dall’opulenza del posto. Più precisamente, a colpirmi in fronte fu un posacenere tempestato di diamanti, lanciato da mano ignota e infingarda.
“Ahi! Chi è che si diverte a lanciare oggetti contundenti contro gli onesti lavoratori?” Ero così indignato che per protesta intascai il posacenere.
Pancrazio mi artigliò un braccio e sussurrò: “Lassù, guarda! È lui… Quentin Tolentino!”
Il grande regista dalla sessualità chiacchierata, in ciabatte e vestaglia, stava appollaiato su un lampadario veneziano, che oscillava pericolosamente sotto il suo peso. Era fuori di sé: “È una vergogna! Come posso vincere il mio tredicesimo Oscar in queste condizioni? Stamattina ho ordinato un Vodka Martini, e cosa ci ho trovato dentro? Una mosca! Capito? Una mosca, invece che due, come vuole la ricetta originale! Come si fa a lavorare in un ambiente simile?”
Un crocchio di persone si era radunato sotto al lampadario, nonostante Tolentino li bersagliasse con tutto quello che gli capitava sotto mano: ora una ciabatta, ora un Rolex, ora una colf filippina. Il direttore dell’albergo, un signore distinto con una folta cresta punk, provò a rabbonirlo: “Non faccia così, Maestro, sono sicuro che si tratti solo di uno spiacevole equiv…”
Fu colpito al capo da una stampante e crollò senza finire la frase.
Prima che le cose degenerassero dovevo intervenire. “Presto, Pancrazio,” dissi al mio assistente, “riprendi la scena col videofonino e caricala su YouTube.”
“Ma questo non va contro il nostro codice deontologico?”
Gli lussai le orecchie con una sberla affettuosa: “Ti ho detto mille volte che non tollero questo linguaggio da osteria. E adesso filma.”
Fu allora che nell’atrio dell’albergo risuonò un colpo di pistola.

Capitolo 3

Estrassi la Magnum dal reggicalze e mi gettai dietro un tavolino.
“Sono il detective privato Dan Druff. Che nessuno si muova!”
“Non si preoccupi,” disse il direttore, che si stava riavendo dal trauma cranico, “quella che ha sentito era solo la suoneria del mio smartphone.” E a riprova di quanto detto trasse di tasca un apparecchio così nuovo che era ancora imballato nel cellophane.
“Bella suoneria di merda,” constatai. “Mi faccia un piacere, piuttosto: vada a prendere una scala e facciamo scendere il signor Tolentino.”
“Subito.”
Il regista, notai in quel momento, si era calmato e mi osservava con viva curiosità.
“Dan Druff, eh? Ho già sentito parlare di lei. Non era finito in galera per aver sparato a Babbo Natale?”
“Si è introdotto illegalmente in casa mia, il giudice ha dovuto riconoscermi la legittima difesa,” ci tenni a precisare.
“Però per un mese non sei uscito di casa per paura che il clan delle renne volesse farti la pelle, vero capo?” aggiunse del tutto a sproposito Pancrazio.
Lo incenerii con lo sguardo: “Ricordami un po’ perché ti ho assunto come assistente, Pancrazio.”
“Perché ho un nome ridicolo, capo.”
“Ah, già. Beh, ora sta zitto!”
Il direttore era di ritorno con una scala pieghevole. Dando prova di un servilismo fuori dal comune, volle salirvi egli stesso. Con i quindici metri di lingua avvolti attorno al collo in modo che non gli fossero d’intralcio, tese la mano a Tolentino e mormorò con fare ossequioso: “Si afferri bene, Maestro, e attento a non sciv...”
Un secondo colpo di pistola lacerò l’aria. Il direttore, improvvisamente ammutolito, perse l’equilibrio e cadde a terra.
“Si rialzi e spenga quella maledetta suoneria!” sbottai, pungolandolo a suon di calci nella milza.
Il direttore non rispose. Pancrazio si chinò a esaminarlo, poi mi guardò con aria grave: “Impossibile, capo. Quella non era una suoneria, era un proiettile vero. Il direttore è morto.” Una macchia di sangue si allargava già sul bel completo gessato.
“Ma è orribile!” strillò isterico Tolentino.
“Beh, non era una gran bellezza neanche da vivo,” dissi.
Non avevo tempo per consolare il regista. Setacciai l’hotel da cima a fondo, concentrando le mie ricerche nei pressi dei frigobar, ma non trovai traccia dell’assassino. Quando tornai nel salone sentii puzza di fumo e capii che la polizia era stata avvertita. Il sergente Smandrapponi stava interrogando i testimoni. Come di consueto, fumava un pacchetto di sigarette, senza peraltro prendersi la briga di scartarlo. Mi vide: “Druff, vecchia spugna! Com’è che ogni volta che c’è un casino compari tu?”
“Se ti riferisci a quando ho inavvertitamente investito quel cardinale,” replicai gelido, “sappi che la colpa era sua, stava camminando al centro della strada.”
“Ma stava officiando la Via Crucis!”
“Bravo, difendi i poteri forti, come al solito.” Io e Smandrapponi ci odiavamo. Anni fa eravamo stati amici, ma poi ci eravamo innamorati della stessa donna, una sensuale modella di intimo. Di nome Gianguido.
“Trovato qualche indizio, capo?” disse Pancrazio.
“Un paio di note spese gonfiate e un cuoco che starnutiva nella macedonia, ma niente di utile. Comunque sono pronto a scommettere il tuo stipendio che il vero obiettivo dell’assassino non era il direttore, ma il signor Tolentino.”
Il regista era sceso dal lampadario e appariva più sereno, come testimoniavano le sottili strisce bianche sotto le sue narici. Le mie parole lo fecero trasalire: “Io? Chi mai potrebbe voler uccidere un regista milionario come me?”
“Oh, se è per questo il mondo è pieno di pazzi,” dissi mentre mi strappavo i capelli e me li mangiavo.
“Lei deve proteggermi, deve trovare l’assassino. La assumo ufficialmente, signor Druff!”
“E io accetto l’incarico,” risposi grattandomi solennemente lo scroto. “Da questo momento non deve temere nulla. A parte la mia parcella, chiaro.”
Per Smandrapponi fu uno smacco: “Invece di chiedere aiuto della polizia, preferisce affidarsi all’unico detective privato che impiega mezz’ora ad allacciarsi le scarpe anche quando porta le infradito? Fantastico, davvero fantastico.” E dal nervoso inghiottì l’ultima sigaretta del pacchetto.

Capitolo 4

“Siete proprio sicuri che questa sia una precauzione necessaria?”
La voce di Tolentino era appena udibile, soffocato com’era dall’ingombrante corazza protettiva che avevo ideato per lui, e che si componeva di: tre paia di giubbotti antiproiettile, un casco da football munito di specchietti retrovisori in caso di agguati alle spalle, due ginocchiere, un paradenti, una conchiglia e un salvagente per bambini.
“Scherza? È una misura di sicurezza usata anche dall’FBI!”
Mentre lo scaricavamo di peso dalla limousine, Pancrazio mi chiese sottovoce: “Davvero, capo?”
“No. Ma quando mi ricapita di poter vestire come un buffone un regista di Hollywood?”
Entrammo sul set, che era stato ricavato abbattendo la locale sede della Caritas. Mi guardai attorno con una certa titubanza. Era la prima volta che avevo a che fare con il patinato mondo del cinema, se si esclude quel periodo in cui avevo frequentato Nicole Kidman. Le cose andavano a meraviglia, finché il giudice mi condannò a sei mesi di reclusione per stalking. Anche Pancrazio era a disagio. Per dissimulare il suo imbarazzo si avvicinò al buffet e iniziò a sgranocchiare con discreta nonchalance un portatovaglioli. C’era un’atmosfera di grande laboriosità: sceneggiatori, costumisti e altri tizi gay che non riuscivo a inquadrare professionalmente correvano qua e là senza sosta.
Tolentino fu subito circondato da una folla di curiosi. Temendo per la sua incolumità, ordinai ai presenti di disperdersi. Non mi ascoltarono. Dovetti abbatterne un paio a colpi di estintore prima di venir preso in considerazione. Ristabilita la calma, presi la parola: “Ascoltatemi bene, perché ho un annuncio molto importante da fare.” Non volevo che il tentato omicidio diventasse di pubblico dominio, perciò avevo preparato una bugia innocente. “Il signor Tolentino è affetto da gonorrea fungiforme e ha talmente tante piattole che potrebbe aprire una catena di allevamenti. Dato l’alto rischio di contagio, solo i suoi più stretti collaboratori possono avvicinarsi.”
La maggior parte dei presenti si allontanò di corsa. Tolentino mi presentò i pochi temerari rimasti: “Lui è Sigismondo Sigismondi, il protagonista del film.”
“Salve,” disse l’attore. Il suo celebre parrucchino mi fece un cenno d’assenso.
“Joe Palanca, il produttore.” Indicò un cinquantenne con la coda di cavallo e tutto il resto del corpo normale. “I fratelli Efisio e Bachisio Turiddu, responsabili della fotografia…”
“Gemelli siamesi?” domandai, notando che i poveretti erano saldati uno alla schiena dell’altro.
“No, sardi di Oristano. Poi abbiamo Frattaglin, il tecnico delle luci,” un panzone in canottiera alzò una lattina di birra in segno di saluto, “e ovviamente la mia musa, Gloria Frangimuco.”
Gloria Frangimuco. Non l’avevo riconosciuta, con i vestiti addosso. “È un piacere conoscerla,” dissi baciandole galantemente l’ombelico.
Iniziarono le riprese. Il film che Tolentino stava girando si intitolava Gli sciacalli. Raccontava le vicende di una troupe di giornalisti che intervista i terremotati dell’Aquila chiedendo loro: “Come si sente ad aver perso la casa e tutti i suoi averi? Risponda guardando in camera, grazie.”
Gloria svettava su tutti gli altri attori, anche perché stavano girando la scena in cui la giornalista intervista una famiglia di nani. La osservai rapito, mentre fingeva di stenografare, seduta a gambe accavallate su una poltrona rococò.
Labbra carnose, capelli color del grano, forme mozzafiato.
Non c’era alcun dubbio, quella poltrona rococò era davvero splendida. E anche Gloria non era male.
Pancrazio ed io vigilavamo su Tolentino. Joe Palanca, seduto poco distante, tirava di coca come un aspirapolvere. Non ci furono incidenti, a parte una comparsa che restò ferita di striscio da un congiuntivo partito accidentalmente.
A mezzogiorno Tolentino urlò: “Stop! Pausa pranzo!” La troupe si affollò attorno ai tavoli pieni di bibite e cibarie. Pancrazio esclamò: “Capo! L’assassino potrebbe aver avvelenato le vettovaglie!”
Mi diedi una pacca in fronte, sporcandomi di maionese perché tenevo tra le mani un sandwich: “Hai ragione. C’è solo un modo per saperlo. Presto, assaggia l’aranciata!”
“Ma capo…” balbettò Pancrazio.
“Fallo, o ti licenzio. Anzi, prima ti assumo e poi ti licenzio.”
Il mio coscienzioso assistente obbedì. Stette un attimo a palparsi le budella, in attesa del peggio, poi sospirò di sollievo: “È buona.”
“Mi fa piacere, visto che ci ho pisciato dentro. Adesso assaggia tutti i cibi.”
Lo lasciai e andai ad attaccar bottone con Gloria. Nessuno di noi era bravo a rammendare, ma la scintilla scattò comunque. Ci infrattammo nel magazzino delle scope. “Oh Dan,” sussurrò Gloria, quando ne uscimmo, stravolti e spettinati, dieci minuti dopo, “sei proprio un amante focoso!”
“È la stessa cosa che mi ha detto Rita Levi Montalcini.”
Un’esplosione di voci concitate stoppò le nostre chiacchiere da piccioncini. Ci affrettammo a scoprirne l’origine. Un capannello di persone faceva cerchio attorno a Pancrazio, che giaceva scomposto con la faccia nella zuppiera. Lo feci distendere. Era vivo, ma gemeva e vomitava come la bambina dell’Esorcista. Era stato avvelenato.
“Cos’è successo?” domandai all’intorno.
L’intorno non rispose, e allora ci pensò Palanca: “Non lo sappiamo. Stava mangiando un piatto di acciughe marinate, quando a un certo punto ha lanciato un grido ed è crollato.”
Tolentino restò a bocca aperta. Non un bello spettacolo, visto che mostrò una consistente porzione di bolo: “Acciughe marinate? Sono io l’unico a mangiarle!”
“Questo è un indizio interessante,” risposi. L’atmosfera si era fatta pesante. Non a caso il vassoio dei fagioli era vuoto. “L’assassino è uno che conosce i suoi gusti, e che ha libero accesso al set. Questo significa che è uno dei suoi collaboratori.” Mi interruppi e fissai i volti dei presenti, causandomi un principio di strabismo. “In altre parole, l’assassino è uno di voi.”

Capitolo 5

Le riprese furono interrotte. Interrogai i membri della troupe e verificai i loro alibi. Tolsi dalla lista dei sospetti Gloria, che durante la pausa pranzo si trovava con me, e i gemelli Turiddu, che si erano subito ritirati nel loro camerino. Restavano Sigismondi, Palanca, Frattaglin e un centinaio di addetti ai lavori. Li torchiai, ma neppure quella crudele tortura medievale ebbe effetto. Nessuno confessò.
Alle quattro mi ricordai di Pancrazio, che rantolava ancora nel proprio vomito, e chiamai un’ambulanza. Assieme ai sanitari giunse sul posto Smandrapponi. “Ehi, vecchio balordo,” mi apostrofò, “pensi di riuscire a beccare il killer prima che stermini l’intera città?”
Lo ignorai e mi concentrai nella ricerca di indizi. Stavo per desistere quando nel vassoio dei bolliti trovai un capello, nero e sintetico.
Lo mostrai a Smandrapponi: “Stai pensando quello che sto pensando io?”
“Che il servizio catering di questo posto fa schifo?”
“No, imbecille! Questo capello è la prova che inchioda il colpevole!”
Gli spiegai la mia ipotesi e, per quanto gli stessi antipatico, dovette ammettere che aveva senso. Convocammo i sospetti. Nella stanza c’era quel silenzio carico di angoscia che precede le rettoscopie.
“Bando agli indugi, signori” dissi con fare melodrammatico, “abbiamo scoperto chi ha attentato alla vita di Tolentino. Sulla scena del delitto abbiamo trovato un capello sintetico, di quelli che si usano per le parrucche. Quindi il colpevole non può essere che lei, Sigismondi!”
Tutte le teste si voltarono verso l’attore, che sbiancò: “Io? Ma che dice? Non potrei mai fare del male a Quentin… io lo amo!”
“Agenti, arrestate quest’uomo,” latrò Smandrapponi.
Due poliziotti si fecero avanti, ma Tolentino li anticipò. Prese a graffiare la faccia di Sigismondi strillando come una patita di shopping durante il periodo dei saldi: “Maledetto! Come hai potuto? E io che ti ho fatto tutti quei massaggi all’olio di cocco!”
“No! No! Sono innocente!” piangeva l’attore, riparandosi il volto con le mani. Gli agenti li separarono e poi portarono via Sigismondi, afferrandolo ciascuno per un capezzolo.
Calò di nuovo il silenzio. Nessuno sapeva cosa dire. Frattaglin, per stemperare la tensione, intonò un motivetto popolare a rutti.
Gloria mi abbracciò: “Sigismondi un assassino? Incredibile. Che gli succederà adesso?”
Fu Smandrapponi a rispondere: “Oh, finirà sulla sedia elettrica, signora. E magari prima verrà anche processato, ma non è detto.”
“Tutto è bene quel che finisce bene, allora. Andiamo a farci una birretta?” domandai.
“Tutto bene?” puntualizzò Gloria, “il tuo assistente è in terapia intensiva e dovrà subire un trapianto di colon!”
“Niente che non si possa sistemare con una bella dormita,” risposi con un sorriso falso quanto una battuta di Luttazzi. Speravo che la trappola avesse funzionato. Il vero assassino era ancora a piede libero, ma avevo intenzione di catturarlo molto presto.

Capitolo 6

Quella sera Gloria mi aveva proposto di andare da lei. “Se fai il bravo ti mostro anche le diapositive della mia appendicite”, mi aveva sussurrato languida all’orecchio.
Per calmare i bollenti spiriti avevo dovuto rovesciarmi un secchiello di ghiaccio nei boxer: “Spiacente, bambola. Ho già un impegno.”
Era vero. Adesso erano le undici, e mi trovavo nell’ufficio di Tolentino. Seduto sulla sua poltrona girevole in pelle, le spalle rivolte alla porta, aspettavo l’assassino. A portata di mano avevo la mia Magnum, e l’ultimo numero di Casalinghe roventi, nel caso l’attesa fosse più lunga del previsto.
Tolentino, quando girava un film, aveva l’abitudine di passare le serate sul set, ma stavolta gli avevo imposto un cambio di programma. Si trovava al sicuro nella sua camera d’albergo, probabilmente impegnato a leccare gli addominali scolpiti di qualche attorucolo compiacente.
Io avevo preso il suo posto, e anche la sua identità.
Il mio volto, grazie al sapiente lavoro di un truccatore, era uguale a quello del regista. Neppure mia madre mi avrebbe riconosciuto. Non che mia madre fosse molto attendibile: aveva l’Alzheimer e non mi avrebbe riconosciuto neppure se fossi andato da lei con la mia vera faccia e una maglietta con su scritto a caratteri cubitali SONO TUO FIGLIO. Le mie riflessioni furono interrotte da un bussare sommesso. Era giunto il momento.
Cercai di copiare la voce di Tolentino: “Avanti.”
Il visitatore entrò, poi richiuse la porta. “Si sente bene, Maestro? Ha una voce strana.”
Mi strizzai i testicoli prima di rispondere: “Sono solo stanco.”
Il visitatore esitò, ma quando girai la poltrona e mi vide in faccia, si rasserenò. O meglio, si rasserenarono. Davanti a me stavano Efisio e Bachisio Turiddu, legati uno all’altro da una raccapricciante malformazione e da un’ancor più raccapricciante camicia hawaiana.
“Cosa posso fare per voi, ragazzi?”
Si scambiarono uno sguardo complice. “Niente. Siamo noi che vogliamo fare qualcosa per lei,” dissero in coro, e con una coordinazione perfetta trassero di tasca due coltelli a serramanico.
“Immagino che a questo punto dovrei avere paura,” dissi.
La loro sicurezza vacillò, e sparì definitivamente quando videro cosa tenevo nella mano sinistra.
“Quella è una copia di Casalinghe roventi.”
“Esatto. E questa,” alzai l’arma che impugnavo con la mano destra, “è una Magnum.”
Capirono di essere stati scoperti. Provarono a scappare, ma in direzioni opposte, e caddero al suolo in un groviglio indistinto. Sparai un colpo. La pallottola trafisse la camicia, e li avrebbe uccisi se davvero fossero stati gemelli siamesi.
Ma non lo erano. Pur nel fumo causato dalla detonazione, la camicia strappata mostrava distintamente che i loro corpi erano separati.
“Bel trucco, ragazzi, ma ne ho uno anch’io da mostrarvi!” E così dicendo mi strappai la maschera di dosso. I gemelli si slogarono le mascelle dalla sorpresa. “Sapete, all’inizio non sospettavo di voi. Eravate i soli a non essere presenti quando Pancrazio è stato avvelenato. Se ci foste stati, non sareste passati inosservati. Due gemelli siamesi attirano l’attenzione. Uno sconosciuto con i baffi no. È così che è andata, vero? Uno di voi è rimasto in camerino, l’altro si è cambiato d’abito, si è messo dei baffi finti e ha approfittato della calca per avvelenare le acciughe. Però è stato sfortunato, e ha lasciato una traccia, quel pelo sintetico.”
“Buona ricostruzione, ma non ti servirà a niente. Siamo due contro uno,” sibilò Efisio.
“Tu sarai veloce con la pistola, ma noi siamo veloci con il coltello, non puoi sparare a entrambi,” sogghignò Bachisio.
“Temo che vi sbagliate. Esci pure, Smandrapponi,” risposi imperturbabile.
Con un cigolio sinistro e profusione di orrende bestemmie, il sergente e la sua abbondante tonnellata uscirono dal comodino in cui erano stati nascosti nelle tre ore precedenti.
“Efisio e Bachisio Turiddu, vi dichiaro in arresto!” boccheggiò stravolto. “In quanto a te,” Smandrapponi mi guardò torvo, “potevi trovarmi un nascondiglio più comodo. Ho dovuto divorarmi un polpaccio per avere un po’ di spazio!”
“Ah, la dura vita dell’uomo di legge,” ribattei.
I Turiddu non volevano ancora accettare la realtà: “Ma allora… l’arresto di Sigismondi…”
“Era un bluff per farvi uscire allo scoperto. Prima di convocare la troupe, questo pomeriggio, abbiamo informato Sigismondi dei nostri sospetti e lui ha acconsentito ad aiutarci. Da grande attore qual è, ha recitato superbamente il ruolo del colpevole.”
“I colleghi della polizia penitenziaria mi hanno detto che, per meglio entrare nella parte del carcerato, si è fatto brutalizzare nelle docce,” aggiunse Smandrapponi.
“Che grande attore!” ribadii ammirato.
I gemelli lasciarono finalmente cadere i coltelli, sconfitti. Smandrapponi li ammanettò e chiese: “Solo una cosa non capisco. Perché volevate uccidere Tolentino?”
“Volevamo vendetta,” biascicò Bachisio. “Prima di fare i fotografi ci esibivamo come cabarettisti in Sardegna col nome d’arte di Biddaio Brothers. Un giorno abbiamo inviato una nostra sceneggiatura a Tolentino e sapete cosa ci ha risposto? Che andava bene solo come carta igienica!”
“Siamo troppo avanti per essere compresi. Siamo i campioni dell’ilarità,” gli fece eco il fratello, che ormai aveva perso anche l’ultima briciola di sanità mentale. “Ma che dico ilarità: Ilary Blasi! Ah ah ah! La sapete quella del cammello che dice a un altro cammello…”
“Basta, basta per carità!” Smandrapponi ebbe un brivido di raccapriccio. “Che brutta storia, sembra un racconto partorito da una mente deviata.”
“A volte la realtà mette la freccia e supera la fantasia,” filosofeggiai, “del resto c’è anche un proverbio che dice: Diffida sempre dei sardi e di chi indossa camicie hawaiane.”
“Mai sentito,” disse Smandrapponi.
“Non importa. Muoviti a chiamare la centrale, che ho da fare.” E pensando che di lì a poco avrei rivisto Gloria, non potei fare a meno di mugghiare come un alce in amore.