Giovanni Pascoli: differenze tra le versioni

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La sorella maggiore (Orazia, soprannominata "Ninfomane" a causa della sua passione per le ninfee della mitologia greca) usava il corpo di Giovanni come base per piantare ombrelloni e le sue mani per grattarle la schiena (esigeva che le due funzioni dovevano essere svolte contemporaneamente, ciò complicò ulteriolmente la sessualità futura del bambino)
 
[[Immagine:gollum.jpg|left|thumb|300px|Pascoli alla tenera età di 9 anni, notare il corpo logorato dagli abusi familiari]]Gli altri tre fratelli (Qui, Quo e Qua) usavano il suo stomaco come salvadanaio, ed ogni tanto strappavano ciocche dei suoi capelli (sempre più diradati anche a causa del vizio del padre) per costruire i loro famosi copricapi da Giovane Marmotta, successivamente strappavano a freddo le pelliccie delle marmotte e le incollavano con metodi convenzionali alla testa del fratello (per questo Giovanni comparve sempre con tutti i capelli benchè li perse da molto giovane);
 
Inoltre alla famiglia si aggiungevano altre 5 sorelle, 2 fratelli, 5 nonni, 7 bisnonni, 12 zii, 24 cugini, 2 madrigne, 2 padri (la madre naturale era di facili costumi), 3 cani, 4 gatti, 2 uccelli, ed altri 5 elementi di cui si sconosce sia nome che sesso che razza che aspetto.
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Nel frattempo Don Vito, rimasto solo, venne preso di mira da un folto gruppo di terroristi russi negri islamici nazisti delle brigate porpora, che si trovava nei paraggi coinvolto in una gara a chi raccoglieva più funghi.
 
[[Immagine:Robocop.jpg|right|thumb|200px180px|Uno degli assassini del padre di Pascoli]]Gli uomini di questo squadrone armato riempirono di proiettili il corpo della vittima, spararono circa 580.700.000 colpi, nel raggio di 50 metri non c'era millimetro quadrato di terra che non fosse coperto da interiora, Don Vito aveva perso completamente forma: la pelle era tutta saltata; metà dell'intestino era fuori dal corpo e rigettava in continuazione i liquidi verdogiallastri acidi in esso contenuti; il pancreas era sbriciolato e sparso sulla carrozza che lo aveva accompagnato; una delle due gambe era staccata, i suoi brandelli erano sparsi per terra; l'occhio destro era uscito dall'orbita e pendeva dalla testa retto dal nervo ottico, lesionato per giunta; una buona superfice del cranio era saltata mostrando il cervello; l'avambraccio sinistro era completamente scoppiato, lasciando però sporgenti le ossa dell'articolazione; la gabbia toracica era letteralmente frantumata, lascando scivolare tutti gli organi in essa contenuti; la mandibola era mezza staccata pendente e mezza frantumata; e le unghie della mano destra erano tutte scheggiate. Nonostante questo Don Vito era ancora in vita, Giovanni, ancora con i pantaloni abbassati, era appena giunto sul posto (ma giusto in tempo per osservare e memorizzare indelebilmente senza reagire tutto lo spappolamento del padre, che durò circa 47 minuti) e corse per soccorrere il padre. Una volta tenuto in braccio il corpo informe grondande di sangue come fosse pieno di geyser sanguignei di 2 metri ricevette questa richiesta: "''Figliolo, guardami negli occhi!''". Giovanni obbeddì e fissò nelle pupille il corpo, che sputando sangue e pus disse le sue ultime parole: "''Io ti voglio be-''", mentre completava la frase arrivò un missile sulla nuca del Don. La testa saltò in mille pezzi eccetto la colonna cervicale e qualche brandello di cervelletto attaccato ad essa che rimasero sporgenti.
 
Giovanni scoppiò in un urlo di terrore mentre gli piovevano addosso i pochi resti del padre. Per qualche strana ragione questo avvenimento fu considerato un trauma, addiritturà il principale che condizionò la mentalità del poeta.
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Immediatamente dopo lo scoppio del padre, Giovanni decise di fuggire dalla realtà: si mise semplicemente a correre seguendo traiettorie stupide simili a quelle del volo delle mosche, delimitato dalla corda da viaggio (anche se non si è certi che si fosse accorto di averla). Dopo diversi giorni notò che poteva liberarsi facilmente della corda, visto che era costituita da uno spago da cucito, liberatosene andò a rifugiarsi nel primo posto che capitò: uno scatolo di un barbone in prossimità di Castelvecchio. Riuscì a mantenersi in vita per diversi anni e frequentò il Liceo Statale Paritario per Baristi Alcolizzati, ma dato che aveva ancora solo 12 anni lo frequentò come lavavetri e cavia umana per gli esperimenti degli alunni più irrequieti, fra i quali troviamo il giovane Gabriele D'Annunzio con la quale strinse una grande amicizia (simile a quella che aveva col padre). Gabriele D'Annunzio (che anche se era nato 10 anni dopo era 5 anni più grande di Pascoli, perchè a differenza di quest'ultimo aveva interessi per la vagina femminile) era un personaggio molto in voga in quell'ambiente, conosciuto anche con lo pseudonimo di "Gabry Ponte", usò l'ingenuità del Pascoli per accrescere la sua fama e soddisfare le proprie esigenze sessuali durante le carenze di donne (per qualche strana ragione tutte le ragazze del liceo avevano il ciclo mestruale sincronizzato). Giovanni vide in questo ragazzo una nuova figura di riferimento visto che fu l'unica amicizia che strinse in questa scuola: anche qui gli altri alunni, vedendo come veniva trattato da D'Annunzio, lo scambiarono per un oggetto e lo trattavano come tale, i maschi credevano che fosse una porta da campo di calcio, un cestino dei rifiuto parlante o un banco poggia-piedi puzzolenti; le ragazze lo usavano come portatrucchi (vista l'ampia scelta di buchi nel quale incastrali), sacco da boxe, e pannello per giocare a freccette (sempre ed esclusivamente velenose).
 
[[Immagine:CartaIgienica.jpg|right|thumb|150px|Il principale utilizzo delle poesie pascoliane liceali]]D'Annunzio portò di moda in quella scuola la sua passione per la poesia, fra i versi memorabili che troviamo scritti col pennarello sulle porte dei servizi igenici maschili vi sono quelli della poesia intitolata "''Primo vere''", che recitano: "''Primo vere / Este tati / Auto ni / Inve erni''", in futuro pubblicata su riviste del calibro di "Modella 1800" e "Ieri". Data l'elevata debolezza della natura di Pascoli ben presto si conformizzò anche in questo atteggiamento del suo mentore, naque così la sua vena ispiratrice per le poesie decadenti (ovvero lo stesso genere di D'Annunzio, chiamato così a causa dello scarso contenuto delle opere), e cominciò a comporre le sue prime poesie, molto apprezzate nell'ambiente scolastico (gli alunni usavano i fogli con le quali erano scritte come cartine, i professori come carta igenica, entrambi dopo averli usati li restituivano al poeta).
 
=== Gli anni universitari ===
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