Strage del Rapido 904
come fanno i delfini nei giorni d’agosto
seguendo chissà quali vie.
Ma di colpo è un mare di fuoco,
la tempesta si schianta d’intorno.
La strage del Rapido 904 avvenne a bordo del Rapido 904, le prove a testimonianza di ciò sono schiaccianti. Definita anche strage di Natale, rappresenta il colpo di coda dell'ormai agonizzante terrorismo degli anni '70. Oppure l'inizio dell'epoca nota come guerra di Mafia dei primi anni '90 del XX secolo. O magari c'entra il terrorismo camorristico. Si tratta quindi di terrorismo camorfioso. O maforra terroristica. O quel che è, suonano bene entrambi.
Questa strage si colloca in un contesto socio-temporale altamente ambiguo, a cavallo di due periodi storici profondamente differenti: agli slanci creativi ed innovativi degli anni '70 fa seguito una sensazione di indolente consapevolezza che galleggia in fiumi di Ramazzotti, Aperol ed eroina, al ritmo martellante della new wave. Ci stava bene una strage, tanto per ricordare alla gente che non bisogna rilassarsi troppo.
L'attentato
Visto che era già da un po' che non mettevano le bombe sui treni e qualcuno cominciava già a considerarla una possibilità remota, il 23 dicembre 1984, alle ore 19:08, sul treno Rapido n. 904, partito da Napoli alla volta di Milano, si verificò un'esplosione talmente forte che, a 60 km di distanza, la casalinga Priscilla Carota coniugata Scornaienchi accusò il marito di aver di nuovo scorregiato. E invece il signor Belisario era incolpevole dei 16 morti e 266 feriti, il suo record personale restando quindi fermo a soli 3 ricoveri per asfissia.
Subito dopo l'esplosione, i macchinisti attivarono il freno di emergenza, cosicché il convoglio si arrestò nel bel mezzo della Grande Galleria dell'Appennino, un lungo tunnel tra Bologna e Firenze. A causa dello scoppio era andata distrutta anche la linea elettrica, insieme a tutti i finestrini delle carrozze, lasciando i passeggeri superstiti al buio e al freddo. Molti non si accorsero della differenza siccome viaggiavano in 2° classe, anzi, alcuni dichiararono ai giornalisti di aver notato un lieve miglioramento nelle condizioni del viaggio.
Uno dei controllori, benché ferito, riuscì ad organizzare i soccorsi chiamando da un telefono di servizio all'interno della galleria. Se avesse avuto un cellulare non ce l'avrebbe mai fatta poiché, come tutti sanno, dentro le gallerie non c'è campo.
I soccorsi
Il coordinatore della Centrale Operativa di Bologna colse subito l'occasione per collaudare il piano d'emergenza, incurante del fatto che non ce ne fosse uno. Decise quindi che esso sarebbe consistito nel fare le cose un po' come veniva.
Nella concitazione, non fu subito chiaro chi si andasse a soccorrere e perché: l'unica certezza era che c'era un treno fermo in galleria. Fu perciò deciso di inviare un locomotore elettrico per trainare il convoglio, ma il piano si arenò quando il vice-coordinatore riuscì a far capire al coordinatore che i treni elettrici non vanno se manca la corrente.
Si optò dunque per un locomotore diesel, che però appestò l'aria all'interno della galleria. Anche i non fumatori ivi presenti si trovarono dunque col rischio di sviluppare tumori e patologie cardiache centuplicato. Si cercò di tamponare il problema portando in galleria delle bombole d'ossigeno, ma nell'urgenza non si andò troppo per il sottile: ad un venditore di palloncini nelle sagre paesane fu requisita la dotazione di bombole di elio, così ad un certo punto sembrò che ci fosse un raduno dei parenti di Donald Duck e di Topo Gigio.
Nella vicina stazione di San Benedetto Val di Sambro vennero prestati i primi soccorsi ai feriti e trainato il convoglio. Qui finalmente venne allestito un ponte radio funzionante e fu possibile organizzare il trasporto dei feriti più gravi verso l'Ospedale Maggiore di Bologna. La Società Autostrade, per agevolare tale operazione, mise gratuitamente a disposizione un casello poco distante, salvo ritoccare verso l'alto i pedaggi.
Il piano d'emergenza era stato messo a punto all'indomani della strage di Bologna e prevedeva la cooperazione tra forze dell'ordine e mezzi di soccorso, la razionalizzazione delle vie d'accesso agli ospedali del capoluogo felsineo e l'impossibilità di presenziare per Gabriele Paolini.
L'attentato al Rapido 904 costituì la prima vera opportunità di sperimentarne l'efficacia. La cosa più difficile fu ricordare in quale cassetto era stato chiuso il manuale operativo, operazione che richiese un'ora buona di spremitura di meningi. Fortunatamente questo fu l'unico ritardo e gli operatori coinvolti si comportarono in maniera a dir poco esemplare. Dopo questa esperienza il servizio centralizzato di Bologna Soccorso sarebbe diventato il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118. Con sommo disappunto del coordinatore della Centrale Operativa, abituato ad anni di assenteismo e fancazzismo.
Le indagini
Visto l'egregio lavoro della macchina dei soccorsi, quella della giustizia non poteva essere da meno. Si partiva da pochi punti fermi, tutti in comune con la strage dell'Italicus di dieci anni prima: tanti morti e feriti, un treno sventrato e la Grande Galleria dell'Appennino involontario teatro del misfatto in entrambi i casi. La prima ipotesi investigativa fu quindi che i terroristi avessero voluto celebrare il decennale dell'Italicus.
Si ripresero in mano i polverosi fascicoli delle stragi nere e si procedette col metodo ampiamente collaudato in precedenza: si rastrellarono circoli anarchici e covi di neofascisti, si cercarono collegamenti col terrorismo internazionale, la banda della Magliana, la Loggia P2 e i servizi segreti deviati. Alla fine il guazzabuglio di congetture fu tale che, a tre mesi dall'attentato, l'unica cosa sicura era che nessuno ci aveva capito una mazza.
La svolta giunse per un caso del tutto fortuito: nel marzo 1985 erano stati arrestati a Roma per commercio illegale di merce illegale Guido Cercola e Giuseppe Calò: il nomignolo di quest'ultimo, "Pippo", aveva attirato l'attenzione degli agenti, in quanto, secondo essi, tradiva inequivocabilmente l'abitudine di assaggiare la roba prima di smerciarla.
Nel maggio successivo fu individuato il loro covo, all'interno del quale venne rinvenuto un apparato tipo scatole cinesi: una valigia che ne conteneva altre due più piccole, in cui si trovava un apparato ricetrasmittente che conteneva le pile per farlo funzionare. Dentro le pile c'erano dei dischi di zinco alternati a dischi di rame, immersi in una soluzione acidula. A completare il quadro furono trovate antenne, cavi elettrici, mozziconi di spinello, due plettri un po' usati, venti cerini e sei sigarette. Insospettiti dalla mancanza di una chitarra, i poliziotti notarono che il frigorifero, anziché essere pieno di birre, conteneva una certa quantità di esplosivo, lo stesso usato per la strage.
È il 9 gennaio 1986 quando Cercola e Calò vengono formalmente accusati di aver eseguito materialmente la strage: a loro carico erano stati raccolti innumerevoli indizi ed essi stessi avevano fatto delle piccole ammissioni. Per ottenerle, gli inquirenti non avevano esitato a torturarli mediante la visione forzata e continuata di tutte le puntate dell'Almanacco del giorno dopo; prima di andare a dormire dovevano scrivere un resoconto dettagliato delle puntate visionate in giornata e se commettevano qualche errore dovevano ricominciare da capo.
Emerse altresì una serie di collegamenti con varie organizzazioni malavitose e con un tedesco di nome Friedrich Schaudinn, esperto di trenini elettrici ma soprattutto di dispositivi radiocomandati identici a quello usato per la strage: ne furono trovati diversi in casa di Pippo Calò, che non fu creduto quando dichiarò che uno era il telecomando del garage, un altro per la sua automobilina radiocomandata, e l'ultimo per azionare la pompa di calore.
Con queste premesse in mano, agli inquirenti non restava altro che inquadrare l'ideologia che aveva concepito l'attentato. Calò e Cercola potevano essere neofascisti, veterocomunisti o vegani, camorristi o infiltrati di qualche organizzazione paramilitare. Per far prima si decise che erano un po' tutte queste cose qua e si andò a processo.
I processi e le condanne
Stavolta, a differenza di altri misteri italiani, sembrava tutto abbastanza chiaro: c'era la strage, c'erano gli indiziati, c'erano delle cose molto simili a prove, c'erano i giudici, c'erano i tribunali, c'era l'associazione dei parenti delle vittime. Caso forse unico, non si era verificato alcun tentativo di depistaggio: i depistatori abituali si erano misteriosamente autodepistati. I processi si sarebbero dovuti concludere in breve tempo e con esito positivo.
La Corte di Assise di Firenze il 25 febbraio 1989 rifilò l'ergastolo a Pippo Calò, Cercola e ad altri personaggi legati ai due (Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, camorrista detto 'O Direttore Sanitario in quanto boss del Rione Sanità), con l'accusa di strage. Inoltre, condannò a 25 anni di galera il crucco Schaudinn, più una serie di altre pene ad altri personaggi emersi dall'inchiesta, per il reato di banda armata. Finì nel calderone anche qualche ignaro passante.
Al secondo grado la sentenza fu emessa il 15 marzo 1990. Le condanne all'ergastolo per Calò e Cercola vennero confermate. Misso, Pirozzi e Galeota vennero invece assolti per il reato di strage, ma condannati per detenzione illecita di esplosivo, con la seguente motivazione: "Detenere esplosivo è diverso da farlo detonare: ci sono ben due vocali che fanno la differenza". Il tedesco Schaudinn venne invece assolto dal reato di banda armata, ma rimase incolpato della strage e condannato a 22 anni, con la seguente motivazione: "Anche se non deteneva l'esplosivo, poteva benissimo farlo detonare. Il cambio di vocali si è dimostrato anche in questo caso determinante, la Settimana Enigmistica lo ha acclarato in maniera inoppugnabile".
A questo punto fece il suo trionfale ingresso sulla scena, come un vero Deus ex machina, il giudice Corrado Carnevale. Il 5 marzo 1991 la 1ª sezione della Corte di Cassazione, da lui presieduta, annullò la sentenza di appello, con la seguente motivazione, redatta dallo stesso Carnevale: "Perché quelle facce? Cos'altro volevate aspettarvi da me?". Il sostituto Procuratore generale Antonino Scopelliti era contrario e mise in guardia i giudici dal far prevalere l'impunità del crimine. Per questo ricevette una telefonata anonima dal contenuto inequivocabile:
La Suprema Corte di Cassazione annullò con rinvio la sentenza d'appello, disponendo quindi un nuovo giudizio. Il 14 marzo 1992 furono confermati gli ergastoli per Calò e Cercola, mentre a Schaudinn furono rifilati 22 anni. Misso si vide la condanna commutata a tre soli anni per detenzione di esplosivo, mentre le condanne di Galeota e Pirozzi vennero ridotte a un anno e sei mesi: tutti e tre vennero assolti dai reati di strage, con la seguente motivazione: "Stiamo iniziando a romperci le palle".
Quello stesso giorno Galeota e Pirozzi, insieme alla moglie Rita Casolaro ed alla moglie di Giuseppe Misso, Assunta Sarno, mentre ritornavano a Napoli, furono vittime di un agguato: la loro auto fu speronata e mandata fuori strada da alcuni killer della camorra. Sul terreno rimasero Galeota e la Sarno, quest'ultima finita con un colpo di pistola in bocca. Soltanto Giulio Pirozzi e sua moglie riuscirono miracolosamente a uscirne vivi. Pirozzi, benché ferito gravemente, si salvò anche perché si era finto morto nel corso della sparatoria. In seguito tentò, senza successo, la carriera cinematografica come cadavere nei film polizieschi.
Il 24 novembre 1992 la Cassazione, durante un periodo di ferie del giudice Carnevale, confermò la sentenza, riconoscendo la "matrice terroristico-mafiosa" dell'attentato. O terroristico-camorristica, è lo stesso.
Il 18 febbraio 1994 la Corte di Assise di Appello di Firenze concluse il giudizio anche per il parlamentare dell'MSI Massimo Abbatangelo, tirato in ballo dai suoi camerati. Abbatangelo fu assolto dal reato di strage, ma venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato dell'esplosivo a Giuseppe Misso, nella primavera del 1984. Le famiglie delle vittime fecero ricorso in Cassazione contro quest'ultima sentenza, ma persero e dovettero rifondere le spese processuali, con la seguente motivazione: "Questo significa non sapersi accontentare: vi abbiamo già ergastolato un po' di gente, ma è disdicevole accanirsi contro un politico, anche se forse potreste avere ragione".
Guido Cercola morì in carcere a Sulmona il 3 gennaio 2005, soffocato da una porzione di lacci di scarpe alla carbonara. Aveva terminato la scorta di spaghetti dimenticandosi di ripristinarla.
Il 27 aprile 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli emette un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Totò Riina per la strage, precisando che Riina ne va considerato il mandante, come risposta al maxi processo a Cosa Nostra. Da allora Riina si prestò volentieri a qualsivoglia tentativo di scagionare politici dando la colpa al mafioso che ammazza la gente per passare il tempo.