Nonsource:Io, Ibra

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PERSONAGGI E INTERPRETI

IN ORDINE DI APPARIZIONE


FC Barcelona

Io, Ibra

Pep Guardiola – l'allenatore del Barcellona, quello con i completi grigi e l'aria pensierosa – venne verso di me, e sembrava imbarazzato. Aveva appena calpestato uno stronzo due metri per due.
«Da quando gli sceicchi hanno acquistato la società i loro cammelli appestano il manto erboso del Camp Nou. È inaccettabile» esordì il Mister.
Una voce sembrò fargli eco.
Era quella agghiacciante di Antonio Conte – l'allenatore della Juventus, quello con il gatto morto in testa. Anch'egli venne verso di me, e sembrava contento. Era appena stato condannato per la terza volta e per il terzo reato diverso dal Tribunale di Cremona, e ciò in Italia legittimava in chiunque l'ambizione a poter ricoprire una carica in Parlamento.
«Anche allo Juventus Stadium, stronzi di cammello ovunque» attaccò Conte.
«Non ci sarebbe sufficiente materia prima per fare i kebab, altrimenti» intervenni.
Ed era vero. Le città su cui gli sceicchi materializzavano le loro passioni calcistiche tendevano a trasformarsi piano piano e sempre più in conglomerati urbani: da un lato la "vecchia" città e dall'altro il quartiere arabo. Cammelli ovunque che cagavano ovunque per i quartieri arabi, dove trovavi kebab ovunque. Era bello vedere come il culto del buon cibo fosse radicato nella mentalità di quella gente: raccoglievano gli stronzi di cammello da terra, li friggevano e li impanavano. Poi finalmente salsavano i loro amati kebab e li addentavano con fierezza.
«Senti» Guardiola mi richiamò alla realtà. «Qui al Barça teniamo i piedi per terra».
«Ottimo» risposi io. «Bene!»
«Perciò quando siamo all'allenamento non ci uniamo ai cammelli a cagare sul campo».
Annuii, lasciando da parte qualsiasi atteggiamento del tipo: che c'entri tu con quello che faccio io?
Quando feci per andarmene notai come i giocatori del Barcellona, gente del calibro di Messi, Xavi, Iniesta e l'ex Perugia Saadi Gheddafi, sembrassero un mucchio di scolaretti cresciuti in un collegio.
Non fraintendetemi: i giocatori erano fantastici, niente che non andasse riguardo a loro, ma io ero abituato all'Italia, dove se sei uno disciplinato allora sei anche uno sfigato. Solo il semplice fatto che io ero Ibra andava a creare un paradosso, in tutto quello. Non mi ci trovavo, proprio per niente. Ma pensavo: "fatti piacere la situazione, non confermare i loro pregiudizi!". Perciò cominciai ad adeguarmi. Fui docile come un agnellino. Era pazzesco. Mino Raiola, il mio agente, il mio amico, mi diceva: «Ma che cavolo ti succede Zlatan? Non ti riconosco più». Poi dava un morso al panino e si tranquillizzava da solo.

«Sarai la mia unica punta.»

La cosa poteva anche durare, solo che si mise di mezzo Messi: un giocatore straordinario, ma da quando ero arrivato al Barça Guardiola mi faceva giocare al centro. Gli avevo rubato il posto in campo e facevo più gol di lui. Gli stavo rubando la scena, per cui andò dal mister e disse: «Non voglio più giocare laterale destro. Voglio giocare al centro».
Al centro c'ero già io, ma Guardiola se ne infischiò e cambiò modulo: dal 4-3-3 passò al 9-0-1 con Messi punta, mentre io finii nell'ombra. Della panchina. Le palle passavano tutte da Messi mentre le uniche che toccavo io erano quelle che racattavo.
Ero anche disposto ad accettarlo, finché la società avesse continuato a pagarmi 12 milioni di euro l'anno, ma a Guardiola non andava bene nemmeno così. Ogni tanto, durante le partite si voltava verso di me e tirava fuori i suoi improperi da allenatore: «Stai seduto composto, Zlatan!».
Io ero il più grande investimento fatto nella storia di quel club e non mi sentivo a mio agio nei nuovi schemi. Ma uno così costoso non si deve sentire a disagio. Txiki "poi te lo ripeto" Begiristan, il direttore sportivo, insisteva che dovevo parlarne con l'allenatore.
«Chiarisci la cosa!» mi disse un giorno.
Caso volle che quello stesso giorno Guardiola scivolò in un fossato; poi il terreno franò, seppellendolo vivo. O almeno quella fu la mia versione in tribunale.

Dove tutto ha inizio

La formazione dell'FBF Balkan '90-91, in posa al campetto durante una sessione d'allenamento.

All'FBF Balkan, uno dei miei primi club, quando facevi gol da centrocampo, non si sentivano cose come «bel gol, complimenti» ma piuttosto roba tipo «dovevi retropassarla al portiere, testa di cazzo!».
Era quella la strategia: invece che finalizzare, si ripassa la palla indietro fino al portiere.
«Così imbamboliamo per bene gli avversari!» diceva l'allenatore. Inanellammo una serie di centododici sconfitte consecutive e la società fallì.

Nonostante avessi solo nove anni, disponevo già di un procuratore: Hasse Borg veniva sempre a vedermi agli allenamenti e quando manifestò l'intenzione di fare di me un suo assistito, la domanda che gli feci mi venne assolutamente spontanea.
«Perché sei così interessato a me?»
«Perché sei forte e in più mi annoio a stare in casa tutto il giorno»
«Potresti trovare qualcosa da fare. Tipo un lavoro vero» gli suggerii.
«Io ce l'ho già qualcosa da fare durante il giorno» disse accendendosi una canna e aspirando con violenza.
Era perfetto: lui aveva la licenza media e passava le giornate fumandosi le canne e guardando le repliche dei Cesaroni, mentre la società era appena fallita e quello che avevo appena disputato era stato l'ultimo allenamento con il club.
«Faremo strada insieme» dissi porgendogli la mano.
Hasse ci mise circa tre anni a trovarmi un nuovo club: andai a giocare per il Malmö e quella sì che era una società seria. Tanto per cominciare, lì il campo aveva forma rettangolare e non rotonda come nei club in cui avevo precedentemente militato. E poi guai ad arrivare puntuali o a usare le scarpe con i tacchetti per giocare; in quanto a regole erano davvero severi, al Malmö. Non andava bene, non per me. Telefonai ad Hasse:

Hasse Borg, il mio primo procuratore.

«Hasse, voglio un club migliore di questo. Voglio il Real Madrid».
«Sì, tu sei forte Zlatan. Sei forte forte» mi rispose espirando con foga.
«Lo so che sono forte, è per questo che voglio il Real. Se proprio devo, mi accontento anche del Manchester United».
«Cazzo, davvero? Io ho in ballo solo i Denver Cosmos. Sto giocando a NBA Live per la Play, robe da pazzi. Ahahahah!»
«Ma come cazzo sarebbe a dire i Denver Cosmos? Prima di tutto sono una squadra di hockey su prato, e poi sono falliti nel '65!».
«Oh mio Dio, Zlatan, la cornetta del telefono continua a cambiare colore! Oddio Zlatan, c'ho la paranoia!»
«Calmati Hasse. Direi che potremmo partire per Madrid oggi stesso. Che ne dici?»
Hasse non mi diede risposta. Era morto d'infarto e la canna rimastagli accesa in bocca gli aveva incendiato prima la camicia, quindi i pantaloni e i capelli, fino a carbonizzarlo.

E ora dove lo trovavo un altro procuratore?
La risposta fu nella mia spazzatura. Quella stessa notte sentii rovistare nei cassonetti che avevo sotto casa. Mi affacciai dalla finestra:
«Che cazzo fai, brutto stronzo!» mi rivolsi all'uomo.
«Prima di tutto fatti i cazzi tuoi e lasciami mangiare in pace. Poi stai attento con quel naso. Mica vorrai decapitarmi?» mi stizzì con la sua risposta.
Era bellissimo. Alto circa un metro e sessanta, dal respiro affannoso e i vestiti impregnati di sudore. Aveva una carica di sensualità non indifferente e continuava a grattarsi il culo con violenza e ad annusarsi il dito soddisfatto. Mi piaceva.
«Ciao, io sono Zlatan. Scommetto che sei disoccupato».
«Col cazzo, lavoro come ruota di scorta per cingolati» ringhiò l'uomo.
«È un lavoro degradante. Dalle mie parti sei rispettato se fai un lavoro di merda. Vuoi essere il mio procuratore?» gli chiesi con semplice e naturale ingenuità.
«Certo. Mi chiamo Mino, parlo una lingua e conosco Luciano Moggi».

Juventus FC

«Ibra, vieni qui!».
Fabio Capello, forse l'allenatore di maggior successo degli ultimi dieci anni, mi chiamò ad alta voce e io pensai: "Che ho fatto adesso?"
«Perché sei venuto all'allenamento in mutande?» mi domandò. Era furioso.
Wayne Rooney ha detto che quando Capello ti passa accanto si spengono le luci e cala il silenzio; poi una scintilla e ti cachi pesantemente addosso in un vortice di diarrea fulminante.
Capello non è tuo amico, non vai a parlargli dei tuoi problemi. Quando si arrabbia sono pochi quelli che osano guardarlo negli occhi.

Ricordo in particolare quando giocammo i quarti di Champions fuori casa contro il Liverpool. Perdemmo per due a uno, e prima del match Capello aveva messo a punto la tattica e deciso le marcature da tenere durante gli angoli del Liverpool. Ma Lilian Thuram, a un certo punto, aveva deciso di fare di testa sua e si era occupato di un giocatore che non gli era stato assegnato; in quell'occasione ci fecero gol. Dopo la partita, Capello fece la solita ronda in silenzio e poi tirò fuori Flaffy la Marionetta dalla patta dei pantaloni.

«Questa è una giornata storica per noi. Ci giochiamo la Champions in casa. Esistono le parole? Tutto quello che posso dire è: andate là fuori e fate quello che sapete fare così bene».

«Thuraaam!» parlò Flaffy. «Chi ti ha detto di cambiare la marcatura?»
«Nessuno, ma ho pensato che fosse meglio così» rispose lui.
Capello prese respiro per un paio di secondi.
«Chi ti ha detto di cambiare la marcatura?» ripetè Flaffy.
«Ho pensato che fosse meglio così».
Flaffy ripetè la domanda ed ottenne la stessa risposta per la terza volta. A quel punto, un boato:
«Ti ho forse detto di cambiare marcatura, lurido mangiarane del cazzo? Te l'avevo detto chiaramente: durante gli angoli del Liverpool devi stare su Stefano De Grandis da Bordocampo!»
Poi Flaffy tirò fuori la pipetta da crack e fece due tiri profondi. Tirò un calcio all'armadio e Capello collassò.
Ricorderò sempre quanto mi disse Alex Del Piero in quell'occasione: «Chi è in gamba? La caviglia. Ahahahaha!»

Eravamo in vetta al campionato, testa a testa con il Milan: continuavamo a superarci a vicenda e ormai mancavano solo trentadue giornate al termine della stagione. Il 17 aprile ci giocammo praticamente lo scudetto al Delle Alpi; finì 24-0 per noi, anche perché Dida aveva capito che si giocava a San Siro e il Milan aveva dovuto mettere in porta Galliani. Sembrava fatta, ma poi il 2 gennaio pareggiammo mentre il Milan vinse, riacciuffando la vetta. Il 13 marzo sorpassammo nuovamente i rossoneri ma il 23 ottobre ci fu un altro controsorpasso. Non si capiva veramente più un cazzo. Arrivammo all'ultima giornata, e lì si decideva davvero lo scudetto.
E volete sapere come è andata a finire, quella stagione così infuocata? Potrei dirlo con una parola o con mille parole e non ci sarebbe alcuna differenza: la verità è che non ricordo se vincemmo noi o il Milan.

All'epoca non avevo idea che polizia e magistratura stessero tenendo sotto controllo il telefono di Luciano Moggi.
Moggi era quello che era, ma si faceva rispettare: uomo dalla postura impeccabile, dai sigari pregiati e dai vestiti gessati.
Una volta convocò me e Mino nel suo ufficio, per discutere del rinnovo contrattuale.
«Prego, prego!» ci invitò ad entrare. «Accomodatevi».
«Volentieri, però non ci sono sedie» osservò Mino. «Anzi, a dire il vero non c'è niente qui dentro. Lei se ne sta nudo e seduto sul pavimento».
C'era andato giù pesante.
Moggi tirò fuori una grossa caccola dal naso e cominciò ad appallottolarla.
«Però ho il frigo» fece Lucky Luciano.
Mino cominciò a sudare freddo e balbettare.

Moggi prega per me.

«Le piace giocare scorretto, eh?» sibilò il procuratore, ma la frase fu coperta dal rumore dello stomaco in subbuglio. Era come se il reattore di un aereo fosse andato in avaria.
Moggi aveva ora iniziato a strofinarsi la caccola sui denti. Appariva molto soddisfatto.
«Bene. La mia proposta di rinnovo è di 25 centesimi a stagione» disse.
Io non capivo cosa significasse tutto ciò, per cui mi limitai a guardare Mino. Confidavo nella maestria che sapeva sfoggiare in fase di trattativa.
«Te lo puoi scordare, Luciano!»
Moggi riprese a scaccolarsi. «25 centesimi e questa pizza surgelata» alzò la posta.
«No!» Mino era determinatissimo.
Moggi protese il collo verso Mino. Ora erano faccia a faccia, la tensione palpabile nell'aria. «E un buono per due hamburger gratis da McDonalds» sussurrò gelido.
«Affare fatto. Tutto sistemato, Zlatan».

Stavo forse vivendo un sogno? Quella stagione avevo segnato zero gol ed ero sempre partito dalla panchina; mi ero rotto il ginocchio ed ero stato fuori dai giochi per sei mesi; disponevo del miglior procuratore del mondo ed ero ricco ed osannato dai tifosi. Fuori dalla porta di casa mi facevano trovare un mucchio di striscioni pieni di affetto: Ibra, Zingaro di merda!

Solo che, come detto, non avevo idea che polizia e magistratura stessero tenendo sotto controllo il telefono di Moggi. Quell'estate scoppiò un vero e proprio pandemonio. La Juve fu retrocessa in Serie D del campionato australiano e questo per me significava la fine. Dovevo assolutamente trovare un'altra squadra.

«Mino, ho solo 22 anni e se continuo a giocare per la Juve la mia carriera è praticamente finita! Devi trovarmi un'altra squadra!».
«Ma veramente io non mi chiamo Mino, credo che lei mi abbia confuso con un altra persona».
Ed effettivamente realizzai che stavo parlando con una signora di almeno ottant'anni, al reparto ortofrutticolo di un supermercato, ma caso volle che in quel momento mi suonò il cellulare:
«Zlatan, sono Mino. Senti, ho in ballo l'Inter».
«L'Inter? O cazzo sì, Mino, ti prego!».
«Fai i bagagli. Andiamo in Brasile».
«Ma come in Brasile, ma che cazzo dici Mino?»
«Chiaro, no? In Brasile. È lì che gioca l'Internaçional de Porto Alegre»

Inter FC

L'Inter era una squadra competitiva, solo che non vinceva lo scudetto da 17 anni.
C'era questo problema nel club: Extremo Losrattos, il presidente e proprietario, aveva fatto di tutto per l'Inter, aveva sborsato cifre folli per la società: aveva acquistato Vieni, Faggio, Rolando, Rolandinho, Rolario, Roberto Rolando e Gresko. Aveva tirato su squadroni allucinanti, ultracompetitivi nella Copa TIM, ma che, quando era il momento di venire al dunque, finivano puntualmente con il non combinare un cazzo.

Non appena arrivammo ad Appeanos Jentil fu subito chiaro che l'Inter era una società seria.

Il problema di Losrattos stava nella sua eccessiva generosità: riempiva i giocatori di premi e buoni per il dentista in caso di gol. Era una mentalità sbagliata: i calciatori vengono già pagati per vincere. Ma Losrattos non è una persona con cui è difficile parlare, per cui un giorno gli dissi:
«Presidente!»
«Sì, Ibra?»
«Lei deve darsi una calmata!»
«In che senso?»
«Con i bonus e i premi! Lei ci stipendia già!»
Losrattos parve perplesso. «Veramente? Materassos mi ha detto che nelle spa non esistono gli stipendi».
«Beh, Materassos l'ha presa per il culo, presidente!»
Losrattos parve capire, e apprezzare. «Materassos... fa rima con 'stocassos. Grazie Ibra, ho ricevuto il messaggio».
Sembrava un discorso chiuso, ma in quel momento irruppe il neo-allenatore Ruperto Mançinhos. Indossava un foulard leopardato e continuava ad arricciarsi i peli delle ascelle, e in tutto questo si ciucciava l'alluce con foga.
«Presidente, mi aveva chiesto di farle la lista acquisti. Bene, voglio Messi, Cristiano Ronaldo, Bale, Cavani, Falcao, Xabi Alonso, Iniesta, Xavi, Pirlo, Thiago Silva, Pique, Buffon, Eto'o e Lewandowski».
«Bene, grazie Ruperto. Contatterò immediatamente Brança e vedremo cosa si può fare».

Arrivò un unico rinforzo: Coutinho.

Il Brasileiro sarebbe iniziato il giorno dopo e questo era un problema, dato che la nostra rosa comprendeva cinque giocatori.
«Non preoccupatevi» dichiarò Losrattos ai tifosi, in una conferenza pre-campionato. «Il massimo che ci può succedere è perdere 3-0 a tavolino per trentatré partite consecutive».
Fortunatamente il presidente FIFA Joseph Blatter promulgò quella stessa sera una nuova legge immediatamente esecutiva in tutto il mondo:
«Siamo sul filo dell'evoluzione. D'ora in poi si giocherà solo calcio a cinque, i giocatori scenderanno in campo bendati. Si giocherà sulla lava, a bordo di canoe, e non bisognerà più fare gol, ma canestro. Al posto della palla si utilizzerà un cono e i campionati verranno vinti da chi si classificherà terzo» aveva dichiarato a un mare di fotografi e giornalisti.

«Che dici, ci mangiamo un po' di sfincione, Zlatan?»

Fu così che l'Inter tornò a vincere lo scudetto e io fui il protagonista assoluto del trionfo.
Girava voce che il Real Madrid fosse interessato a me, perciò io e Mino ne approfitammo per mettere pressione alla dirigenza. Il rinnovo contrattuale fu un successo; Mino fu spumeggiante:
«Presidente, Ibra vuole un aumento».
«Certo, Mino. Zlatan avrà il suo aumento».
«Eccellente. Non lo mangia quello?»
«Ma veramente quello è cibo per gatti».
«Quella scatoletta, allora. Più 10 milioni l'anno».
«Non le sembra un po' eccessivo?»
«Mille milioni».
«La sua richiesta è fuori dal mondo!»
«La scatoletta. Accordiamoci prima sulla scatoletta. Posso avere la scatoletta?»
Losrattos lo guardò perplesso. «Certo, la prenda pure».
Mino cominciò a mangiare il cibo per gatti con avidità.
«La mia offerta è di una peseta al giorno a Zlatan» riprese Losrattos, posando gli occhi su Mino. «E ti posso offrire una cena nel miglior ristorante della città. Mio ospite, naturalmente».
Mino mi guardò con aria di trionfo.
«Io e il ragazzo accettiamo con gioia».

C'erano tutti i presupposti per una collaborazione lunga e vincente. Solo che successe un casino: durante il ritiro che precedette il secondo Brasileiro che avrei giocato con l'Inter, l'allenatore Ruperto Mançinhos fu immortalato dai fotografi mentre faceva un pompino ad una statua gigante di Pelè. Fu un vero e proprio polverone mediatico che mandò in crisi la società. C'erano sempre più pressioni all'interno della dirigenza, tanto che un giorno Losrattos annunciò l'intenzione di vendere l'Inter.
Il primo acquirente che si fece avanti pretendeva non solo di non sborsare una lira, ma addirittura di ricevere un compenso da parte della società nel caso in cui ne avesse acquisito la maggioranza azionaria.
«Se volete che compri l'Inter dovete darmi un miliardo di dollari» aveva detto. E la dirigenza ci stava pensando seriamente.
Solo che poi arrivò Erick Thor, offrì un dollaro e si aggiudicò il club. Non rientravo nemmeno nei progetti del neo proprietario, visto che voleva fare dell'Inter una filiale di Playboy.

Cosa potevo fare a quel punto? Io, Ibra, il duro di Rosengård, cintura nera di taekwondo, alto un metro e 95 e dal peso di centotrenta kili. Telefonai in lacrime a Mino:
«Devi trovarmi un'altra squadra, Mino!»
«Non mi rompere le palle, Zlatan. Ci sentiamo appena ho finito di mangiare».
Mi ricontattò dopo due mesi:
«Zlatan, è successo un casino. Ho appena investito Galliani col SUV. Cazzo, ho scambiato la sua testa per una parabola e volevo rubarla. Vabbé, comunque sono nella merda: è qui che minaccia di farmi causa, a meno che tu non ti trasferisca nella sua squadra».

AC Milan

Fu subito entusiasticamente chiaro a tutti e tre che avevamo fatto la scelta giusta. O no?

La notizia del mio ennesimo trasferimento fece un clamore pazzesco. Era tutto un parlare di Ibra al Milan. La società mi avrebbe presentato durante l'intervallo della prima di campionato.
Ero seduto tra Mino e Silvio Berlusconi, in tribuna autorità.
«Tu, figliuolo, mi ricordi uno che ho avuto» fece Silvio.
«Van Basten?»
«No, un rumeno che durante la notte mi entrava in casa per rubarmi il rame».
«Lei mi lusinga, Presidente».
«Lo so, lo so» disse Berlusconi con modestia. «Pensa cosa vuol dire, essere nei miei panni: vorrei essere una escort solo per provare l'ebbrezza di farmi un pompino. Sai, Zlatan, ho in ballo questa bella figliuola ungherese. Fa anche lo sconto: ne prende tre e paghi due».
«Potremmo organizzare una cenetta a casa sua» intervenne Mino.
Berlusconi rise. «Naturale, naturale! Mino, preferisci le more o le bionde?»
«Potremmo stare qui a parlare di cazzate» sibilò Mino di rimando. «Oppure cominciare ad organizzare la spesa. Cosa ci mangiamo? Carne di maiale o carne di tacchino? Io le preferisco tutte e due».
«Ah-ah! Sempre spassoso, Mino!»
Ma il procuratore non ci trovava niente di divertente.
«Senti Zlatan», disse rivolgendosi a me, «tra cinque minuti è ora della tua presentazione. Che dici, ci facciamo un panino prima che tu debba andare?»

La presentazione fu un successo, e i miei nuovi compagni di squadra erano semplicemente elettrizzati dal mio arrivo. Tutti mi volevano un gran bene: Seedorf, Ambrosini, Nesta, Gennaro Gattuso e Pirlo, dei campioni leggendari, avevano ritrovato l'entusiasmo per il semplice fatto che mi ero unito a loro.
«ARRRRRRRR!» soleva dirmi Gattuso tutte le volte che lo incrociavo durante l'allenamento. Diventammo subito amici, anche se ogni tanto avevamo delle discussioni durante le partite:
«Passala quella cazzo di palla, Ringhio!»

«ARRRRRRRR!».

Antonio Cassano.


Poi in dicembre si unì al gruppo anche Antonio Cassano. Un tipo cazzuto. Durante la conferenza stampa di presentazione se ne uscì con una frase del genere:
«A me non mi me ne fotte un cazz' di quell' che pensat' voi uagliò. Io voglio solo giocare il calcio».
Quando un giornalista gli chiese se avrebbe giocato trequartista, al posto di Boateng, o seconda punta, Antonio gli tirò ventisette coltellate e fu condannato a tre mesi di reclusione.
«Una giustizia agghiacciante» fu il commento di Conte.
Fatto sta che quando Fantantonio fu di nuovo dei nostri, in marzo, cominciammo davvero ad ingranare. Mi arrivavano un mucchio di assist e segnavo come non mai.
«Mettitelo nel culo quel cono, Ibra!» mi ripeteva sempre Antonio quando finalizzavo le sue giocate.

Arrivammo terzi, dunque vincemmo lo scudetto ed io ero di nuovo il protagonista. Era di nuovo il momento di discutere del rinnovo contrattuale.
Berlusconi mi propose una escort diversa al giorno e settantadue vergini in paradiso (diceva di avere dei contatti utili), più 15 milioni di euro a stagione. Ma a Mino la cosa non piaceva, per cui alla fine si raggiunse l'intesa sulla base di 15 milioni di noccioline più bonus.

Tutto alla grande, ma i guai, come avrete capito, erano sempre in agguato. Berlusconi palpò il culo ad una giudice comunista durante il processo di Biscardi e fu condannato ad anni dodici di reclusione. La società passò in mano a Umberto Bossi che la affidò al figlio Renzo come regalo di promozione. Il giorno dopo il Milan, dall'attivo di 50 milioni, si ritrovava con un passivo di 500 miliardi di euro e fu dichiarata la bancarotta.

Quell'anno lo sceicco Nasser Al-Khelaïfi rilevò il Paris Saint-Germain e diede inizio ad una campagna acquisti mostruosa. Arrivammo io, Maxwell, Lavezzi, Pastore, Cavani, Verratti, Thiago Motta e Oliver Hutton.

Come vidi Galliani in quel momento - ricostruzione neuropsichiatrica.

Adriano Galliani venne a trovarmi, agitatissimo. Gli avevano appena smantellato la squadra.
«Perché faccio così schifo? Non sono nemmeno riuscito a prendere Balotelli! E pure tu sei venuto qui a Parigi! Oddio, cosa faccio adesso?»
«Non è facile prendere Balotelli, Mr. Galliani» lo consolai.
«Su questo ti do ragione. Sono così difficili, i trasferimenti a FIFA!»
Galliani si mise a piangere. Mi toccò il cuore, vedere un uomo così potente ridotto in quello stato.
Cominciai ad accarezzagli la testa. Basta fare così, con Galliani: gli accarezzi la testa e si calma.
«Dimmi che sono bello, Zlatan» mi disse, gli occhi ancora lucidi.
«Sei la creatura più meravigliosa di Dio» lo rincuorai.
Galliani tornò a sorridere e ci abbracciammo.
Quando ci congedammo, notai che la sua testa emanava uno scintillio meraviglioso. Era indescrivibile, era luce divina e veniva, prorompente, da dentro di lui, abbagliando di magnificenza qualunque cosa lo circondasse. Compreso me.
«Adriano!»
«Dimmi Zlatan».
Gli andai incontro. Pronto per farlo mio, ma qualcosa ruppe quella magia che si era instaurata in quella stanza.

Galliani aveva appena scoreggiato, e quell'Infinito bagliore era svanito, risucchiato nel suo sfintere.

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