Giosuè Carducci

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Giosuè Carducci intento a far scoppiare le arterie coronariche di Flaubert col suo potente amore per la Patria.
« Signor Giosuè Carducci può dire al nostro pubblico dove è finita l’arca dell’alleanza?! »

Giosuè Alessandro Giuseppe Katia Carducci (Val di Castello, 27 luglio 1835Bologna,16 febbraio 1907, 3-2 con un gol in fuorigioco) è stato un poeta, scrittore, capo ebraico ed eroe dell’antico Egitto, nonchè noto satanista.

Biografia

L’infanzia e quando era un po' più grande

Giosuè Carducci nacque nel 1835 in Versilia a Valdicastello n. 2 da Ildebrando e Ildegonda Celli[1], ma nel 1838 la famiglia si trasferì a Bolgheri, dove il padre, implicato nel crack del Banco Ambrosiano, esercitava la professione di medico corrotto.
Nel 1849 la famiglia si stabilì a Firenze dove Giosuè compì gli studi presso gli Scolopi acquisendo una discreta preparazione nel sopportare bacchettate sulle mani e ceci su per il retto e, nel 1853, dopo aver vinto il concorso per un posto a pagamento con tassa maggiorata presso la Scuola Inferiore di Pisa, si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Alfabeto, dove nel 1856 conseguì la laurea in Scienza della A e nello stesso anno pubblicò le sue prime poesie sul quotidiano Leggo, in cambio di un po’ di lavoro gratuito ai semafori.

Un clochard in procinto di utilizzare la poesia di Giosuè.

Le difficoltà nel lavoro e il forte freddo temprarono il carattere del giovane Giosuè e gli conferirono un’incredibile capacità nell’accendere le proprie scorreggie per riscaldarsi. La sua prima poesia fu salutata con calore dalla critica del tempo; i fogli sui quali era scritta sopperirono alla grande crisi di carta igienica del 1857, e diedero di che riscaldarsi ai barboni della città. Un importante critico del tempo, Ernesto Maria Gallone, la definì “un'opera collocabile tra una sgommata nel cesso ed Alex l'ariete”.

L’insegnamento

Nel 1856, dopo essersi trasferito a Santa Maria a Monti Mario, piccolo borgo nella provincia di Bocconi, insegnò come spiare la vicina di casa senza farsi beccare presso il Ginnasio di San Miniato, vivendo l'intensa esperienza che riporterà poi, nel 1863, nelle pagine di carattere autobiografico: "Pugnette di San Miniato". Nel corso di questo anno il poeta andò affermando la sua poetica anti-romantica e, con il gruppo di amici formato da Ottaviano Targioni Stronzetti (1833-1899), Giuseppe Torquato Carobbio Gargani (1834-1862) e Tonino Carino da Ascoli (1837-1896), era solito trascorrere le sue giornate suonando i citofoni e scappando. Per questo il gruppo fu definito “I burloni di San Miniato” e, più spesso, “Quelle quattro teste di cazzo”. Nel luglio dello stesso anno ottenne l'abilitazione all'insegnamento, ma non venne ratificata dal governo granducale la sua designazione per il concorso di rutti in La maggiore di Arezzo, che si teneva ogni anno a Pisa, provincia di Firenze.

Le idee politiche e l'entrata nella P3

Allontanato dal Liceo di San Miniato per aver rubato la carta igienica dai bagni, dal 9 aprile 1858 Carducci visse a Firenze guadagnandosi da vivere vendendo rose nei ristoranti. Nasce in quel periodo il suo profondo odio per i colleghi pakistani, sintetizzato in una lettera all’amico Fritz:

« Sti maledetti pakistani, mi fottono il lavoro. Ma poi saranno pakistani o bangladesciani? E poi come cazzo si chiamano gli abitanti del Bangladesh? Bangladesci? Vabbé comunque quella Jessica era una gran maiala. Poi ti racconto. »
(Giosuè Carducci.)

Nel 1862 entrò nella massoneria come membro della Loggia Severa di Bologna, nel 1865 diverrà membro della Loggia vietato agli Homer, dal 1881 della Loggia dei tagliapietre, dal 1886 della Sloggia e il 21 febbraio 1888 fu elevato al 33º grado della scala Mercalli. Nell'istituzione massonica fu poco attivo, quasi sempre passivo, come testimonia il nutrito carteggio con il Gran Maestro del Grande Oriente della Grande Itaglia Ing. Geometra Sigismondo Bagnomaria. Negli anni del trasformismo il poeta conquistò un posto centrale nello spettacolo “Gran sorpresa” della bellissima ballerina brasiliana Franco, presso il night Watchyourback.

I lutti

La Fiat Marea di Giosuè Carducci.

Nel 1857 fu colpito nel giro di due minuti da tre gravi lutti: Giosuè cadde dalla finestra della sua casa a Santa Maria a Monti, trascinando il fratello con sé; il fratello morì sul colpo, Giosuè si salvò aggrappandosi al marciapiede; risalendo a casa spinse per sbaglio il padre che rotolò dalle scale fracassandosi l’osso del collo. Giosuè prese subito la sua Fiat Marea per portarli entrambi all’ospedale, ma per sbaglio stirò il suo cane Fuffi. Sceso dalla macchina colpì con lo sportello il gatto Miao, che rimase tetraplegico per il resto della vita (due giorni). Un vicino di casa che aveva assistito alla scena commentò, davanti alla troupe di Studio Aperto accorsa per l’occasione:

« Che minchione! »
(Vicino di casa di Giosuè Carducci.)

Carducci trascorse un periodo di grande sconforto, che espresse in alcune sue liriche, tra le quali si ricordano “Portassi sfiga” e “Non ho stato io”. Il 7 marzo 1859 contrasse matrimonio con la lontana cugina Elvira Meninculi, figlia del sarto militare Rimbaudo Meninculi, dalla quale ebbe cinque figli: Francesco, morto dopo pochi giorni dalla nascita, Dante, Bice, Laura e Libertà detta Tittì, per le enormi mammelle.

Vespa col plastico di casa Carducci.

Fu di nuovo colpito da gravi lutti familiari nel 1870 con la morte della madre, per un incidente in carrozzella sulla discesa del colle di casa Carducci, e del figlio Dante morto investito da un pirata della strada su una Fiat Marea.

Riammissione all'insegnamento

Riammesso all'insegnamento, gli venne affidato un incarico presso il liceo classico Niccolò Pergiunta di Pistoia, dove insegnò per tutto il 1859 latino e greco, coi sottotitoli in rumeno, ad una classe di sordo-ciechi. Con decreto del 26 settembre 1860 venne incaricato dall'allora Ministro della Pubblica Istruzione Terence Hill a tenere la cattedra di Eloquenza itagliana presso l'Università di Bologna, perché la cattedra ballava e avevano finito i sottobicchieri. Per le sue capacità di reggere la cattedra fu proposto per la nomina di Rettore, ma fu superato al fotofinish da un foglio di carta ripiegato in tre parti. La vita sotto le Torri era dura ma remunerativa; gli venne concesso un posto letto gratuito in stanza tripla con due studenti Erasmus del Mozambico, Mandingo e Mubongo - detti i fratelli cavalli per la lunga coda di cavallo che sfoggiavano - e un buono per la mensa universitaria per antipasto e primo a cinque euri.
Nel 1863 pubblicò con lo pseudonimo di Enotrio Mastranzo "l'Inno a Satana"[2] che, pur ottenendo successo, fomentò vivaci polemiche. Satana intervistato da Studio Aperto, disse:

« Quel Carducci o Carduccio non lo conosco. È tutto un complotto dei giornalisti comunisti per accostarmi ad un tale personaggio »
(Satana su Carducci a Studio Aperto. A seguire intervista a Belen Rodriguez con inquadratura di bocce.)

La sua poesia, intanto, sotto l'influsso delle Letterature straniere ed in particolare di quella francese e tedesca, divenne sempre più improntata di laicismo, prova ne è l'ode "Oggi è domenica, me ne sto a letto e mi tocco", mentre le sue idee politiche andavano orientandosi. Non sapeva bene dove ma si orientavano. Forse verso là. Oltre all'Inno a Satana pubblicò, nel 1868, la raccolta maggiormente impegnata dal punto di vista politico "Levia Gravia, levati dalle palle"

L'amore con Carolina Cristofori Sorchia

La Cristofori Sorchia.

Nel 1871 il poeta conobbe Carolina Cristofori Sorchia (moglie dell'ex-garibaldino Cornuto Sorchia e madre di Emanuele Dobastar Sorchia), una donna ricca di ambizioni culturali e povera di mutande. Fu Maria Antonietta Troiani che aveva intrecciato una relazione con Enrico Panzacchi a parlare della Sorchia, sua amica, a Carducci il quale con lei iniziò un fitto scambio epistolare, che nel 1872 sfocerà in un appuntamento “cena a McDonald e poi veloci a casa”: a lei (chiamata Lina o Lidia o “bella maialona” nelle lettere e in alcune poesie) dedicherà inoltre molti dei suoi rutti in versi. La relazione culminerà nel 1873 con la nascita di Tina Sorchia, figlia naturale del Carducci.
Carducci, tuttavia, nutriva una profonda gelosia per l'amico Panzacchi che era in confidenza con la Sorchia e che con lei (dopo che con la Troiani) aveva avuto dei trascorsi. Il Carducci si insospettì quando, rientrando prima a casa da lavoro, aveva trovato il Panzacchi che era per caso scivolato dentro la Sorchia. Si arrivò addirittura al punto in cui Carducci ruppe con Panzacchi e gli rimandò indietro i suoi libri, con un biglietto con su scritto “Non ti voglio più bene”. Panzacchi, invece, non fece altrettanto, tenendosi tutti i regali di Giosuè, e nutrendo una vera e propria venerazione per il vater; con il tempo il dissidio si placò.

Poeta nazionale

Giosuè Carducci ferma il sole.

Fu durante il periodo della conoscenza con la Sorchia che la fama del poeta, come vater nazionale e guida della cultura itagliana, si consolidò. Di questi anni è l'ampia produzione poetica che verrà raccolta in Rime Nuove (1861-1887) e in Odi barbare (1877-1889), definite dai più un "coacervo stitico ed insipido di strofe buttate a casaccio". Proseguì l'insegnamento universitario, iniziato pochi anni prima, e alla sua scuola si formarono personalità del calibro di Callisto Tanzi, Umberto Bossi, Daniela Santanchè, Wladimiro Tallini.

Nel 1878, in occasione di una visita della famiglia reale a Bologna, scrisse “Quant’è bona la margherita” in onore della regina '‘Margherita’', e venne accusato di stalking per essersi appostato sotto la finestra della Regina con gli zebedei all’aria a cantare l'Osteria numero mille.
Negli anni che seguirono, pubblicò le Nuove Odi Barbare, collaborò alla Cronaca bizantina e lesse il famoso discorso per la morte di Garibaldi: "E 'sti cazzi?" (1882). Nel 1887 pubblicò Rime nuove, salutate dal pubblico con una salva di rutti alle cipolle.

La morte

Nel 1899 pubblicò la sua ultima raccolta di versi, Rime e Ritmi, che comprende, fra l'altro, l'ode La chiesa di Polenta[3], di cui si ricordano i celebri versi:

« Mangia polenta,

bevi acqua,

alza la gamba,

polenta scappa  »
(Incipit de La Chiesa di polenta.)

Nel 1904 fu costretto a lasciare l'insegnamento per motivi di salute. Nel 1906 l'Accademia di Svervegia gli conferì il Premio Nobel per la letteratura, il primo ad un italiano con la motivazione:

« Italiani molto simpatici. Pizza, mandolino, spaghetti bolognese. »
(Motivazione del Premio Nobel)

La morte (per cirrosi epatica) lo colse nella sua abitazione di Bologna il 16 febbraio 1907, quando ancora non aveva scoperto di avere in realtà ben 12 figli: sei nella terra fredda, sei nella terra negra.

Le opere

L’effetto che fa la prima poesia del Carducci sul lettore.

Juvenilia

Breve racconto in rima sulla vita di una donna, Juvenilia, il cui sformato di porri è andato a male. Indimenticabile.

Levia Gravia

Nella seconda raccolta, Levia Gravia (1861-1871), che accosta nel titolo due plurali senza congiunzioni, perché era ignorante ma non lo voleva dire, vengono raccolte poesie di poca originalità o di imitazione, come "L'infinito 2", "La Divina Commedia, sola andata", "Uotsamerigans", "L'odissea 3: il Ciclope s'incazza".

Giambi ed Epodi

Vita e morte dei due amici Giambattista e Edipo, magnaccia di Bologna, scomparsi a seguito di una rissa al coltello con due calabresi che avevano criticato la Torre degli Asinelli. Di loro si cantano l’inventiva mostrata nel modernizzare e razionalizzare il loro lavoro, tra le altre cose inventando la frase: “Ciao bello, drenta bocca, cinguanda dudd’e due”, che le ragazze erano costrette a dire per non perdere tempo a contrattare.

Rime e ritmi

Si tratta sostanzialmente di un corso di formazione per batteristi-poeti.

Rime Nuove

Copertina di Rime nuove.

Forse l’opera più importante di Carducci, almeno secondo la rivista Cioè. Fulgido esempio di poetica protoarcozaica, in essa i contenuti e le forme sono patologicamente gli stessi: tra i temi che emergono nelle Rime nuove un posto rilevante è assunto dal culo.
Così è per l'importante lirica "Diarrea tuonante", un inno alla duplice anima virile e fanciullesca degli uomini, o ancora in "El Pube" o in "A Sorchia", che faceva il verso a "A Silvia" di Leopardi.

Odi Barbare

Odi barbare è una raccolta di cinquanta schizzi poetici. Rappresenta il tentativo da parte del Carducci di riprodurre la metrica quantitativa dei Greci e dei Latini, riuscendo invece a fare una figura di merda. I due sistemi sono decisamente diversi, ma già altri poeti prima di lui si erano cimentati nell'impresa, dal Quattrocento in poi, e specialmente il celeberrimo Giovanni Fantoni. Predomina nelle Odi barbare il tema storico e quello paesaggistico con accenti più intimi, come nella poesia "Minne dell'anima", o nella splendida "Azzo Gardino".

Note

  1. ^ Si chiama proprio così: Ildegonda Celli.
  2. ^ Altro nome vero.
  3. ^ Anche questo vero... potevo copiare e incollare Wikipedia.

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