Ce l'hai nel culo

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« Documenti prego. »
(L’agente della stradale ti ferma in fondo al vicolo che hai percorso contromano, a centotrenta, ubriaco come un alpino.)
« La situazione è grave, l’azienda è costretta a tagliare il personale. »
(Il tuo datore di lavoro prospetta il tuo futuro professionale)
« Cucù! »
(Rocco Siffredi mentre ti aggredisce alle spalle)


Ce l'hai nel culo, espressione antichissima che sta ad indicare l’approssimarsi dell’imminente e inevitabile tragedia. La sua nascita va probabilmente ricondotta alla giocosa pratica dell’impalamento, tradizionale metodo di confronto civile e risoluzione dei contrasti in uso presso numerose popolazioni del paleolitico.

Le origini

Isacco. Perché il Signore ha fermato la mano di Abramo?

La genesi della locuzione si perde nella notte dei tempi, tanto da far pensare che essa sia connaturata alla stessa razza umana. È celebre la rappresentazione che, nelle incisioni rupestri della Val Camonica, raffigura il primo ominide che scendendo dall’albero si trova davanti un leopardo con zanne di settordici decametri. Gli scienziati concordano infatti che la successiva incisione «UUUAAAAARRRRRGGGGGH» possa essere tradotta appunto come «ce l’ho nel culo».

L’espressione viene inoltre abbondantemente citata nelle Sacre Scritture: qualunque stronzo ricorderà che Sara la utilizzò quando suo marito Abramo le comunicò che quel buontempone del Signore pretendeva il sacrificio del figlioletto Isacco. D’altro canto, è arcinoto che «ce l’hai nel culo» era il saluto beneaugurante più diffuso a Sodoma (VR). Quanto al Nuovo Testamento, alcuni testi, di recente invenzione rinvenimento da parte di niente popò di meno che Roberto Giacobbo nella sua casa di campagna di Rennes-le-Chateau, sostengono che Giuda, baciato il Nazareno per indicarlo ai soldati Romani, gli diede una gran pacca sulle spalle e lo apostrofò con un ilare «ora sì che ce l’hai nel culo!»[1].

Il tipico sacerdote Maya

La frase «ce l’hai nel culo» era peraltro in voga anche nell’antico Egitto: i geroglifici rinvenuti nella piramide del faraone Sottankamion narrano che con essa Giuseppe sintetizzò al sovrano l’approssimarsi delle bibliche sette piaghe che avrebbero flagellato il suo regno. «Ce l’hai nel culo» entrò in questo modo a far parte del linguaggio quotidiano, al punto di divenire la frase rituale con cui veniva comunicato agli schiavi che erano stati prescelti per la costruzione dei grandi monumenti.
A sostegno dell’universalità della locuzione, va citata la sua presenza anche presso le civiltà precolombiane. L’esempio più illustre è senz’altro l’annotazione a pennarello riportata sul Calendario di Cazzalqoatl, in corrispondenza della data del 21 dicembre 2012, che recita «katzivostri», termine che in antica lingua Maya significa appunto «ce l’avete nel culo». Alcune fonti sostengono inoltre che gli sciamani Olmechi accolsero i civilizzatori spagnoli annunciando al popolo «ce l’abbiamo nel culo», presaghi delle difficoltà culturali di comunicazione che avrebbero caratterizzato l’imminente sterminio.

L’epoca classica

La locuzione ebbe sicuramente un ruolo fondamentale nelle teorizzazioni dei gai filosofi greci, che apostrofavano gli allievi al grido di «ce l’hai nel culo», non per minacciare punizioni a seguito del mancato svolgimento dei compiti per casa, ma per illustrare loro, alla lettera, il contenuto della seguente ora di attività didattica. Platone riferisce che Socrate proruppe in un affranto «ke l'ho in kulo» quando fu avvisato che la bevanda che gli avevano portato in carcere non era chinotto. Se ancora non siete convinti, ostinati zucconi, vi ricordo che la scritta «ce l’avete in culo» campeggiava cubitale sui fianchi del cavallo di Troia, senza peraltro che questo insospettisse gli ottusi indigeni.

L'Antica Troia.

L’arcano modo di dire ebbe vasta fortuna anche presso gli antichi romani: meno famoso del celebre «tu quoque», che Cesare proferì a seguito delle 23 pugnalate che lo uccisero, fu il motto «in culum habeo» che lo stratega mormorò subito prima dell’attentato, alla vista dell’allegra comitiva di congiurati che si gettava su di lui brandendo le armi. La colonna Troiona Traiana ci insegna poi che, mentre i gladiatori esclamavano «morituri te salutant» al principio della pugna, i martiri cristiani sospiravano «ce l’abbiamo nel culo» alla vista delle fiere che avrebbero addentato le loro carni nell’Anfiteatro Flavio. Secondo alcuni storici a lui contemporanei, Cicerone avrebbe fatto circolare un’edizione del suo "De bello Pompeiano" in cui, al pie' d’ogni pagina, sarebbe stato riportato l’adagio «’o tien’ ‘n cul’, Pompe’», ma purtroppo nessuna delle copie originali è giunta in nostro possesso. Alcune cronache popolari, infine, sostengono che il testo della melodia che Nerone intonava durante l’incendio dell’Urbe[2] recitasse «adesso ce l’avete nel culo, cristiani di merda», ma anche in questo caso non sono disponibili documenti originali a suffragio della tesi.

Il Medioevo

Paradossalmente, la scarsa produzione di documenti scritti riconducibili all’Alto Medioevo lascia ragionevolmente supporre che le popolazioni europee dell’epoca l’abbiano avuto in culo per svariati secoli. Guerre, carestie, pestilenze e le prime edizioni di Porta a Porta ridussero l’Europa sull’orlo dell’estinzione (peraltro meritata, ammettiamolo). Nel Basso Medioevo, grazie alla rivoluzionaria scoperta che il letame non è commestibile, le genti poterono allontanarsi dai pitali e dedicarsi nuovamente alla produzione culturale. Di qui il rifiorire di documenti scritti, in cui gli amanuensi fecero ampio ricorso alla locuzione, decorando il testo con dettagliate miniature di pelosi deretani e vigorosi membri minacciosi, ad uso del volgo analfabeta.

Il feroce Saladino.

Si narra ad esempio che Carlo Magno, brandendo la sua Altachiara sui campi di battaglia, si lanciasse alla carica proprio al grido di «ce l’avete in culo», terrorizzando i nemici. Il motto era peraltro diffuso anche presso le popolazioni islamiche: esso era infatti utilizzato per accogliere festosamente i crociati che invadevano la terra santa. Il feroce Saladino, che i sudditi fedeli vezzeggiavano col nomignolo di "infame cazzone", soleva dire «ڿۃڮږڦ ڕڄھڊٺجعآڈ» (’o pigl’ ‘n cul’ e sbatt’i’mman’) per sottolineare nei confronti dei messi crociati la propria indisponibilità a ritirarsi dai luoghi sacri.

Una menzione particolare, naturalmente, merita l’ampio uso che della locuzione fece il sommo poeta Dante Alighieri. Celeberrimo è infatti il passaggio della Divina Commedia in cui il poeta ha appena letto l’iscrizione sulla porta degli inferi:

« Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza voi ch’intrate.
Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta,

perch’io: «Maestro, già lo sento in culo. »

Il Rinascimento

Giovanna D'Arco ritratta in tutta la sua luminosa credibilità

Numerose sono le testimonianze del ricorso a questa fausta espressione anche nel corso del Rinascimento. A questo periodo possono essere fatte risalire le ultime illustrazioni dei già citati amanuensi, che così espressero il rammarico per l’imminente fine della loro attività, a seguito dell’invenzione della stampa a caratteri mobili (notevoli, in particolare, alcune rappresentazioni della mamma e della sorella di Gutenberg). Se, come già detto, la scoperta dell’America permise l’incontro di due concezioni sorprendentemente simili della locuzione tra culture così profondamente diverse, va ricordato che il crescente fiorire dei commerci, anche verso il Lontano Oriente (AN), estese l’uso dell’espressione pure quale suggello di transazioni economiche truffaldine.

L’espressione ebbe vastissima importanza anche in ambito artistico. Immortale - solo per citare l’opera più famosa - il San Sebastiano Ce L’Ha In Culo (muco su tela) di Giuliano Bruttodìo da Montorsoli, detto Il Cagacazzi, in cui il martire viene raffigurato, legato a un palo, nell’istante in cui gli arcieri prendono la mira. Ma il concetto si eresse a ben più di un semplice oggetto di rappresentazione, al punto che i più illustri esponenti dell’arte rinascimentale, quali Leonardo Da Vinci e Michelangelo Buonarroti, fecero dell’averlo in culo un vero e proprio stile di vita.

Di facile reperibilità, infine, sono le tracce dell’uso della locuzione nei più importanti avvenimenti storici dell’epoca. Basti ricordare l’indimenticabile motto «dans mon cul» che Giovanna D'Arco proferì sul rogo, cominciando a sospettare che l’invito per la grigliata non fosse del tutto sincero. La sibillina risposta del popolo sarcastico (e pure grosso) costituisce peraltro un valido esempio della straordinaria flessibilità dell’espressione, all’origine del pressoché infinito numero di variazioni presente nella lingua.

Prima versione della Morte di Marat di Jacques-Louis David

Il Settecento e l’Ottocento

Neppure il sopravvento della Ragione e l’instaurarsi delle monarchie illuminate poterono evitare che l’umanità continuasse a prenderlo nel culo. Perfino i pensatori più illustri dell’epoca non furono esenti da quella che sembra essere una diretta conseguenza della condizione umana: fulgido monito ne sia la rappresentazione della Morte di Marat, in cui l’illustre filosofo, pugnalato a morte nella vasca da bagno, fa in tempo a scrivere «ce l’ho in culo» quale ultimo lascito spirituale alle genti (si legge benissimo, non fate gli stronzi). Fonti popolari riferiscono poi che Luigi XVI, nel 1793, fosse accompagnato al patibolo dall'adagio «ce l’hai in culo, monsieur le roi», che la folla scandiva eccitata al suo passaggio.

Interessante variazione linguistica, probabilmente dovuta all’uso del genitale genitivo sassone, si deve all’ammiraglio Nelson, che commentò con un secco «ncul’a soret» la sconfitta di Napoleone sul Nilo nel 1798. Lo stesso Bonaparte, d’altro canto, fece riscorso alla locuzione ammirando il paesaggio al momento del suo sbarco sull’isola di S. Elena.

Anche in quest’epoca l’espressione ebbe vasta eco nel mondo letterario. Impossibile dimenticare lo straziante "O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché lo metti in culo ai figli tuoi?" con cui Leopardi espresse il proprio sconforto dopo aver beccato Silvia che si rimembrava lo stalliere. O, ancora, pare che nella prima versione del manzoniano Fermo e Lucia, il povero Don Abbondio mormorasse «ecco, ce l’ho in culo» alla vista dei due minacciosi bravi che gli sbarravano il cammino.

Tony Rutto strabilia la folla durante uno dei suoi concerti.

Il Novecento

Le due guerre mondiali costituirono una miniera inesauribile per il successo della locuzione, offrendole innumerevoli occasioni di riaffermazione. Fu infatti incitamento alla carica, in tutte le lingue dei paesi coinvolti, per le truppe che uscendo dalle trincee dovevano fare la corsa campestre tra mine e filo spinato. È famigerata, inoltre, la sottodivisione delle SS «Ihr habt in dem Arsch», voluta personalmente da Himmler e addetta ai rastrellamenti nelle città occupate. Fonti autorevoli sostengono poi che l’espressione fosse riportata a chiare lettere sugli ordigni atomici che le forze armate americane sganciarono sul Giappone nel 1945, e pare altresì che i nipponici non potessero che concordare.

Quanto alla produzione artistica, il motto dilagò assieme alla massificazione della discografia sin dagli anni Cinquanta, diventando vero e proprio inno per intere generazioni. In Italia, l’esempio forse più illustre è costituito dalla cover di «You can’t always get what you want» degli Stones, la celebre «Te la fai da’n culo» grazie alla quale l’indimenticato Tony Rutto rubò il cuore di tutte le adolescenti (nonché la verginità anale di buona parte di loro).

Ancora una volta, tuttavia, va sottolineata la straordinaria trasversalità del concetto, in grado di permeare qualsiasi ambito della vita e della cultura umana. Lungi dall’essere relegabile entro qualsivoglia confine, infatti, si può forse accostare più propriamente ad una filosofia di vita in grado di fondare le più svariate manifestazioni del pensiero. Non fa eccezione - tutt’altro - la politica: basta considerare l’attuale situazione della nostra amata repubblica per accorgersi che tutte le attuali correnti politiche, nonché i più diversi indirizzi di governo che via via si succedono, siano in realtà ispirati a questa medesima massima di fondo per gestire i fedeli elettori.

L'uso contemporaneo

Troppo numerose per riportarle qui sono le variazioni dialettali dell’espressione (dal campano ntipàcch al labronico s’ha in culo ‘ome sòna prèdia); essa rimane sicuramente più che mai viva anche nell’uso del linguaggio contemporaneo. Di seguito sono riportate alcune tra le più consuete citazioni della locuzione:

Voci correlate


Note

  1. ^ L’autenticità del testo, inizialmente datato intorno al 60 d.C., è stata tuttavia messa in dubbio dai ricercatori della facoltà di Pederastia Avanzata dell’Università di Montedimerda (PG). Gli studiosi, alla cui autorevolezza Giacobbo si è ossequiosamente inchinato definendoli cani rognosi, hanno infatti avanzato delle perplessità in merito alla frequenza con cui nel documento compare il termine Google.
  2. ^ Tanto per menarla, va precisato che furono davvero i cristiani ad incendiare Roma, e non Nerone. Lo fecero cercando di incolpare l’imperatore (e ci sono riusciti, visto che sono duemila anni che ci raccontano ancora la cazzata per cui Nerone avrebbe dato fuoco a Roma), e cercando di sobillare la popolazione, sotto la guida del famigerato Pietro Bin Laden. Figuriamoci se Nerone, che aveva il potere di fare quel cazzo che gli pareva[citazione necessaria], aveva bisogno del pretesto di un incendio per demolire un po’ di case e fare spazio alla sua domus aurea.