Ivrea

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« Vergogna! Voi vi tirate addosso tonnellate di arance mentre in Africa i bambini muoiono di fame »
(Moralista a proposito del Carnevale di Ivrea)
« Tanto se invece di tirarcele ce le mangiamo quelli muoiono di fame lo stesso »
(Cinico abitante di Ivrea)
« Altro che Unieuro... »
(Tipico abitante di Ivrea sorpreso nei magazzini dell'Olivetti)

Ivrea, pronuncia snob di Irrea, è l'unica città al mondo dove le arance invece di essere spremute negli spremiagrumi vengono spiaccicate direttamente sulla faccia della gente.

Tipico palazzo di Ivrea.

La città

Il manifesto del Carnevale disegnato dal giovane Picasso.

Ivrea, in provincia di Tovino, è la sola grande città d’Italia ad avere venticinquemila abitanti. Questi venticinquemila si chiamano Eporediesi perché il luogo fu fondato duemila anni fa dai romani, e i romani, non riuscendo a dire Ivrea perché troppo a culo di gallina, lo chiamarono appunto Eporedia, che non c’entrava niente con Ivrea. In realtà gli abitanti della città dovrebbero chiamarsi Irreali, anche perché è difficile vederli, soprattutto di notte.

Poi, nei secoli successivi, Ivrea si trasformò nell’ordine in una marca, in un marchio, nella cantina di Re Arduino, nella capitale d’Italia, nello sgabuzzino del Conte Verde, nel gabinetto dei Savoia.

Comunque intorno agli anni cinquanta un tizio di nome Olivetti, poi diventato Omnitel e infine Vodafone, pensò di dare vita alla sua personale utopia: creare una comunità di operai felici e costruire una città a forma di macchina da scrivere. Ne venne fuori una via di mezzo tra una città svizzera, un quartiere spagnolo e un kibbutz israeliano con i tasti. Ma col passare dei decenni le macchine da scrivere lasciarono il posto ai personal computer, alle fotocopiatrici e ai telefonini e grazie all’accorta politica industriale di un certo De Benedetti la popolazione attiva si ridusse da ventiduemila addetti a venti, e la forma della città a quella di uno smartphone. De Benedetti non si sa che fine abbia fatto, ma qualcuno dice sia scappato a bordo di un Abraham e si sia nascosto in un kibbutz nel deserto del Negev, l’unico posto non raggiungibile dalle arance degli antisemiti eporediesi.

Un'arancia solitaria sui tremendi cubetti di Ivrea.

Se quindi nei decenni scorsi in questo comprensorio si caricavano e ricaricavano camion e autotreni di attrezzature d’ufficio, Ivrea è ora conosciuta soltanto per il carnevale, essendo ormai i suoi abitanti occupati solo più a ricaricare cellulari.

Tizio : Di dove sei?
Eporediese : Sono eporediese.
Tizio : Cioè?
Eporediese : Sono di Ivrea.
Tizio : Allora dovresti dire ivreano.
Eporediese : No, se sono di Ivrea sono eporediese.
Tizio : Allora dovresti essere di Eporedia.
Eporediese : No, se sono eporediese sono di Ivrea. Tu di dove sei?
Tizio : Di Palermo.
Eporediese : Allora sei palermitano.
Tizio : No, sono norvegese.

L'orribile Dora Baltea.

Al giorno d’oggi Ivrea è solamente un fastidioso passaggio obbligato per andare in Valle d’Aosta a fare cose molto più gratificanti come sciare e giocare al Casino di Saint Vincent, o al Lago di Viverone per fare sci di palude, per cui, a meno di prendere l’autostrada venti chilometri più a ovest, si è costretti a fare il “giro della morte” lungo il terribile anello a senso unico dotato della peggiore cubettatura dell’Europa occidentale, che costringe a tenere il volante non solo con le mani ma anche con i piedi finché non si ritrova l’asfalto, senza mai rallentare per non essere ignominiosamente tamponati da chi sta dietro, che naturalmente non ha più piedi disponibili per frenare. Se preso a una certa velocità, succede di continuare a sobbalzare ancora per una decina di chilometri dopo aver lasciato la città e di ritrovare i passeggeri non più seduti al posto di prima.

Se invece si preferisce non andare oltre e passare una bella giornata proprio a Ivrea, si consiglia l’area pedonale a dossi e cunette, con le necessarie soste ai bar per prendere ossigeno, il castello medioevale di Re Arduino, che qui mille anni fa veniva a infrattarsi con i suoi amichetti, e l’immenso parco fluviale con vista sulla Dora Baltea (il lugubre fiume di Ivrea) da una parte e sull’hotel La Serra dall’altra, hotel dalla singolare forma a carrello di macchina da scrivere.

A Ivrea un’arancia sta pescando nella Dora. Passa una mela.

La mela : Buon giorno. Pesca?
L’arancia : No, arancia.

La sera invece Ivrea è tutta un’altra cosa, purtroppo.

Ristoranti

Il morto del 1994 festeggiato dai suoi compagni di squadra, che grazie a lui quell'anno vinsero la Battaglia.

Per cenare, Ivrea dispone di ottimi ristoranti conosciuti in tutto il Canavese (la regione d’Ivrea, che non fa provincia):

  • La Topaia di Re Arduino (fuori Ivrea, presso Collettore Giacosa), propone ottimi ratti alla griglia con contorno di cavoli al forno e radici di mandragola alla fogna, nella migliore tradizione medievale.
  • Il Mago Merlino (fuori Ivrea, a Camelot), offre la sovrannaturale esperienza di farvi sparire centocinquanta euro dal portafoglio lasciandovi la leggera sensazione di non avere nemmeno mangiato.
  • Dal Cardinale Mazzarino (fuori Ivrea, a Palazzo), solo per ecclesiastici inclini agli intrighi di palazzo e alla fornicazione.

A Ivrea città c’è il bar della stazione.

Vini

Il Canavese è terra di cantine e vini superlativi quali l’Erbalucedellemiecanne di Caluso, il Cannavese rosso fermo, bianco mosso e rosato instabile, il Carema di Carema e il Barbera di Contrabbando, tutti DOC (Denominazione di Origine Cannabinoide).

Vita notturna

La Bella Mugnaia e il suo inseparabile berretto rosso con dentro i resti dei genitali di Gino Ranieri di Biandrate.

Questa invece la scelta dei locali per passare una piacevole serata a Ivrea:

  • Lunedì: tutto chiuso
  • Martedì: tutto chiuso
  • Mercoledì: tutto chiuso
  • Giovedì: un bar
  • Venerdì: un bar e una vineria
  • Sabato: un bar, una vineria e un cinema
  • Domenica: un’edicola

Il “Mai-a-letto”, storico locale suino-notturno di Ivrea, è stato chiuso dall’ufficio di igiene privata e dal comitato di salute pubblica nel 1789.

Il carnevale

Ma passiamo finalmente a ciò che davvero conta, di tale insulsa città: il suo carnevale.

Il Carnevale di Ivrea non è diverso da tutti gli altri carnevali al mondo fatti di balli in maschera, sfilate di carri, scherzi della natura, amori proibiti, sbornie assassine e lanci di petardi invalidanti se non per una cosa: l’esecrabile Battaglia delle arance. Perciò parleremo soltanto di questa.

La Battaglia delle arance

Scatta la rissa.

L’unico evento simile di cui al momento si abbia conoscenza ha luogo in Spagna, vale a dire La Tomatina di Bunyol, dove la folla si prende a pomodorate. Ma non è proprio la stessa cosa. Per comprendere la differenza chiamate un amico e ditegli di portare un pomodoro e un’arancia, quindi piazzatevi a un metro e mezzo da lui e ditegli di tirarvi in faccia con più violenza possibile prima l’uno e poi l’altra. Se il vostro amico ha una buona mira la differenza la coglierete in pieno.

La battaglia si articola in tre giornate campali: domenica, lunedì e martedì grasso. Alla fine della tre giorni si contano ogni anno tra i trecento e i quattrocento feriti al pronto soccorso, tra i trenta e i quaranta ricoveri all’ospedale e almeno un paio di casi di coma da eccesso di vitamina C. Si dice che nel 1994 ci scappò anche il morto, ma nessuno se ne accorse e la battaglia continuò come niente fosse tanto che gli spazzini trovarono il cadavere solo la sera di martedì grasso, sotto mezzo metro di arance spappolate.

La storia

Colpito in pieno lo sbirro.
Doppietta.
Tripletta.
Massacro.

Comunque, questo stupido e allo stesso tempo curioso modo di festeggiare il carnevale si ripete all’incirca da un paio di secoli, e sembra sia stato appunto un lascito dei francesi, che così esportavano in tutta l’Europa occupata gli ideali democratici della Rivoluzione. Pare che Napoleone se ne facesse addirittura un vanto, di questa ridicola kermesse, l’unica guerra che vinse a Ivrea e la sola cosa che restò di lui in Piemonte. Ma la vera origine della battaglia delle arance pesca addirittura in un’antica tradizione medievale, quando, circa ottocento anni fa, gli eporediesi si ruppero improvvisamente il cazzo di passare la prima notte di nozze al bar a giocare a briscola nell’attesa che il signore della città si saziasse delle grazie delle loro spose e gliele riportasse solo la mattina per colazione. E si ruppero in particolar modo le mogli, tanto che un giorno una mugnaia, la Bella Mugnaia, che era la bella del paese e divenne poi la maschera di Ivrea e del cinema, invece di portare in dono al tiranno Gino Ranieri di Biandrate – che giustamente pretendeva lo ius primae noctis come tutti gli altri – il suo fiore non ancora sbocciato, portò un coltello da macellaio infilato nelle mutande di ferro e con questo gli tagliò la testa e il bigolo in due. Mai fidarsi di una mugnaia, in particolare se ancora vergine.

Il tiranno non la prese molto bene, per cui si rese poi indispensabile una vera e propria rivoluzione che i poveri miserabili, non avendo altre armi a disposizione, combatterono ferocemente a colpi di fagioli, cacciando per sempre da Ivrea tutti i papponi e i maniaci sessuali. Il tragico e glorioso avvenimento venne da allora celebrato di anno in anno e rappresentato all’infinito per mezzo di questa originale allegoria della lotta di classe che vedeva i vari rioni fronteggiarsi con la soldataglia puzzolente del tiranno, finché un giorno, stanchi di tirarsi fagioli e lenticchie, che non facevano più ridere, qualcuno non pensò di sostituire i legumi con le arance, rendendo la festa molto più divertente e soprattutto molto più impressionante.

In ultima analisi, pensate a quanti bambini africani sono morti di fame per colpa di quella mugnaia del cazzo.

Lo svolgimento della battaglia

Le ostilità deflagrano su quattro campi di battaglia e mezzo, corrispondenti alle quattro piazze di Ivrea, grande appunto circa quanto un letto a quattro piazze, e a un cortile. Una dal vago sentore e odore medievale che ricorda la mugnaia, la seconda dall’aspetto ottocentesco che rammenta il Grande Nano, la terza defilata in una borgata malfamata al di là del fiume che ricorda la Magliana, la piazza della famigerata Fossa dei Tuchini, e l’ultima che assomiglia a uno squallido parcheggio dove solitamente si fa il mercato – con le arance rimaste sulla piazza – e per questo il punto più disertato dagli spettatori, anche perché nelle vicinanze non ci sono bar, tanto che i carri sfilano nella desolazione e combattono solitari nella tristezza più assoluta. Per riprodurre le epiche risse tra popolani e sbirraglia dei tempi andati gli eporediesi hanno dunque pensato di articolare la battaglia in questo modo:

Ovviamente partecipano anche le ragazze, ma c'è ancora qualche stronzo di maniaco in giro.
  • I combattenti appiedati: rappresentano il popolo, tutti con la loro casacca colorata con su stampato l’infantile simbolo del rione di provenienza (tipo Gli Scacchi, Gli Assi di Picche, I Diavoli, La Morte e La Figa, che non sono veri e propri rioni ma, data l’infima dimensione della città, isolati con almeno tre portoni).
  • I combattenti su ruota: rappresentano gli sgherri del tiranno e stanno appunto sui carri, ovvero sui “tamagnun” (rimorchio agricolo con ruote gommate solitamente adibito al trasporto del letame ma anche “donna molto grassa”) trainati da pariglie, quadriglie e triglie di cavalli che sembrano chiedersi, nel limite delle loro facoltà equine, che razza di animali possano essere quegli psicolabili vestiti come ausiliari del traffico che si tirano arance in faccia come a volersi uccidere.
  • Gli spettatori: rappresentano il pubblico, che deve pagare il biglietto ma non può intervenire nella battaglia, o farlo a suo rischio e pericolo, nel senso che può colpire di nascosto ma, più facilmente, essere colpito a morte alla luce del sole.
  • Le arance: rappresentano se stesse. Per fugare ogni giudizio e critica di ordine etico, i nove vagoni di agrumi (uno per ogni quartiere) che ogni anno arrivano a Ivrea in treno dalla Sicilia sono regolarmente acquistati a un quarto del loro prezzo di mercato presso una piantagione autorizzata di Cosa Nostra, in cambio di una notte di sesso di tutta la cosca con la Bella Mugnaia.
La Fossa dei Tuchini, che accolgono gli odiati Boia.

Lo scontro avviene all’incirca in questo modo: un carro, uno a caso, seguito a intervalli regolari da tutti gli altri, fa il giro delle quattro piazze, tutte opportunamente protette da alte reti da arancia – più resistenti di quelle da pesca – perché gli agrumi non finiscano dentro le finestre (a parte la piazza del parcheggio, dove non ci sono finestre) e in ogni piazza trova ad attenderlo due o tre squadracce di fanti a piedi che lo tempestano inferociti di tarocchi come a volerne fare una mousse. La terza piazza è presidiata da una sola squadra, quella dei citati Tuchini, ma questi sono talmente pericolosi che la maggior parte dei carri preferisce non attraversarla, a costo di perdere punti per la classifica, tanto che i Tuchini sono costretti a passare la maggior parte del tempo a tirarsi arance fra di loro.

Due di Picche.

A loro volta i “carristi”, coperti da caschi agghiaccianti, scagliano i loro dardi sulla massa informe come allucinati. È una scena ancestrale e al tempo stesso ipnotica, quella del combattente su carro che dalle cassette prende arance con entrambe le mani e le tira alternatamente su quelli di sotto i quali estraggono le arance dalle sacche che tengono a tracolla e, riparandosi la testa con un braccio, tirano con l’altra mano contro gli orripilanti caschi dei carristi, non riuscendoli a colpire altrove. Possono anche raccoglierle da terra, in mezzo alla fanghiglia arancione che ben presto comincia a salire o, se particolarmente abili, prenderle al volo e ritirargliele dietro. Convenzionalmente, si tenta di non colpire i cavalli che, come i due conducenti del carro, che fanno ogni volta il giro della piazza terrorizzati e ingobbiti sotto i doppi cappotti e i cappelli corazzati, in teoria dovrebbero essere neutrali. Ma nella mischia, è risaputo, una botta ti può sempre arrivare, e i cocchieri sopportano mentre i cavalli s’incazzano. Se poi si mettono a scagliare arance anche gli spettatori a incazzarsi sono un po’ tutti e finisce in guerra civile.

La tristezza dei combattimenti nella piazza del parcheggio, dove i “Mercenari” non hanno nemmeno tutti la stessa divisa.

Al termine del conflitto gli aranceri sono lordi di arance maciullate e resi irriconoscibili dagli occhi gonfi e dalla poltiglia cerebrale che cola tra i capelli, soprattutto quelli a terra, che essendo poveri sono privi di protezioni, mentre quelli sui carri si levano l’elmo, si guardano negli occhi sudati ed esausti e infine, sportivamente, si sporgono dal carro e stringono la mano agli avversari. Poi si va tutti insieme al bar a bersi una spremuta.

Ad ogni modo, vince la squadra che dopo i tre giorni di guerra totalizza più degenze in ospedale. A parità di punteggio, vince quella che ha collezionato più punti di sutura. I morti valgono doppio.

Avvertimenti

I resti della battaglia.

Per partecipare in qualità di combattente è necessario pagare ottocento euro di iscrizione per stare sul carro e cento per stare sotto il carro, ma ne vale la pena, e pure di finire all’ospedale, ma poter poi dire, come tutti gli altri: “C’ero anch’io”, espressione tipica dell’eporediese medio. L’importante, sempre, è che quella volta ci fosse anche lui. La parte dello spettatore invece dev’essere del tutto passiva proprio perché chi ha pagato tanto per trucidarsi a colpi di arance potrebbe poi risentirsene, e non sopporterebbe di sentirgli dire che, quella volta, c’era anche lui.

Comunque, per chi vuole assistere a questo immane scempio di agrumi, si ricorda un unico importantissimo accorgimento: vestirsi abbastanza male e indossare qualcosa di rosso e visibile (quindi i tanga e le giarrettiere non valgono, a meno di indossare solo quelli) cioè di rivoluzionario, altrimenti il rischio è quello di venire trascinati involontariamente nella cieca carneficina essendo a quel punto autorizzato chiunque, anche gli spettatori, a infierire sul malcapitato con una gragnuola di tarocchi maturi fino a farlo stramazzare esanime e boccheggiante nella melma. A questo proposito all’ingresso del centro storico, per chi non si fosse adeguatamente preparato, sono allestite delle bancarelle che in modo assolutamente non lucroso vendono berretti frigi di ispirazione rivoluzionaria francese o anche semplici nastri rossi da mettere bene in evidenza se, una volta fatto ingresso nella bolgia, non si vuole fare una brutta fine, scambiati magari per dei fottuti monarchici.

Conclusioni

Bossoli.


Come accennato, alla fine di ognuno dei tre giorni di battaglia il pronto soccorso si riempie di tizi che non si capisce se siano insanguinati o semplicemente lordi di arance, tanto che, non riuscendo a capirlo, molti si fanno visitare appunto per saperlo.

Non solo, la pavimentazione delle piazze dove è avvenuto il sacro macello è ricoperta da un nauseante e deprimente strato di arance, bucce di arance, polpa, succo, semi e fango di arance che arriva al ginocchio, tanto che è anche difficile procedere. Allora, a una certa ora, si incominciano a sentire i commenti degli addetti alla nettezza urbana

« Porcu diu! »

Film ambientati a Ivrea negli ultimi quarant’anni

"C'ero anch'iooo!"
  • Arancia meccanica (1969)
  • L’anatra all’arancia (1975)
  • Nu jeans, n’arancia e na maglietta (1984)

Città gemellate

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